"Non c’è dubbio che l’italiano sia da tempo in movimento… e che tale movimento – che si collega direttamente alle trasformazioni sociali, economiche, politiche, culturali, che sono avvenute in epoca più o meno recente nel nostro Paese, come più in generale nel mondo globalizzato – comporti anche la perdita di usi che sembravano consolidati e, viceversa, la diffusione di forme e modalità comunicative inimmaginabili fino a poco tempo fa": Paolo D’Achille invita a riflettere su alcuni aspetti dell'italiano contemporaneo.
Paolo D'Achille
L’Accademia della Crusca, da anni, si occupa sia di studiare e promuovere lo studio dei testi antichi – che rappresenta di certo il suo principale compito istituzionale (oggi si dovrebbe dire la sua mission!), ma non l’unico (come invece a volte affermano, più o meno in buona fede, esponenti di altri centri di ricerca che si occupano, tra l’altro, della lingua italiana) – sia anche di osservare e analizzare l’italiano di oggi, per spiegare i cambiamenti in atto, per esprimere opinioni (non sempre e non necessariamente pienamente convergenti tra tutti i membri dell’Accademia) su certe tendenze della lingua, per collaborare, quando le viene richiesto, con istituzioni e organi statali, e, all’occorrenza, per prendere posizione su scelte (anche politiche) che toccano l’uso dell’italiano. Il Servizio di Consulenza linguistica, nella sezione delle risposte ai quesiti e in quella delle parole nuove, affronta continuamente questioni che si legano all’italiano di oggi; le attività della Crusca Scuola vertono su aspetti della didattica che riguardano l’intero percorso di studi primari e secondari, e quindi investono in prima istanza proprio l’insegnamento/apprendimento della lingua contemporanea (e non solo all’interno della materia che viene chiamata genericamente “italiano”).
Non c’è dubbio che l’italiano sia da tempo in movimento (e del resto l’Accademia è stata forse la prima istituzione linguistica che ha usato questa parola quando, sotto la presidenza di Giovanni Nencioni, promosse una serie di conferenze raccolte in un volume del 1982 intitolato appunto La lingua italiana in movimento) e che tale movimento – che si collega direttamente alle trasformazioni sociali, economiche, politiche, culturali, avvenute in epoca più o meno recente nel nostro Paese, come più in generale nel mondo globalizzato – comporti anche la perdita di usi che sembravano consolidati e, viceversa, la diffusione di forme e modalità comunicative inimmaginabili fino a poco tempo fa. È un dato di fatto. La comunicazione mediata dal computer (con le conseguenti trasformazioni che hanno subito le attività di lettura e di scrittura), l’uso generalizzato dello smartphone, la partecipazione sempre più massiccia ai social network, il quotidiano contatto con l’inglese e, al tempo stesso, la riduzione della comunicazione intergenerazionale, soprattutto tra genitori e figli (un po’ meglio sembra procedere quella tra nonni e nipoti), con la conseguente diminuzione di una diretta trasmissione di “saperi” di vario tipo, sono elementi evidenti, che fanno parlare (soprattutto chi non è del mestiere) di un “impoverimento” dell’italiano.
Quando vengo intervistato (e mi capita abbastanza spesso), provo sempre un certo disagio nel momento in cui mi si pongono domande sull’impoverimento dell’italiano, in che cosa consista, come si possa arginarlo. Da un lato, infatti, mi verrebbe spontaneo confermare il dato (non ci sarebbe niente di male: lo fanno molti colleghi, anche tra gli accademici), pensando a certe indubbie carenze nella competenza attiva e passiva del lessico da parte delle ultime generazioni (che ignorano il significato di parole che appartengono, secondo il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, all’uso comune, se non addirittura al vocabolario di base, nella sezione del lessico di alto uso), nonché al venir meno di conoscenze relative alla mitologia, agli episodi biblici ed evangelici (gli uni e gli altri fondamentali non solo per la lingua e la letteratura, ma anche per la storia dell’arte e l’iconografia), al melodramma e al teatro greco-romano, italiano e straniero. D’altra parte, penso anche alle maggiori competenze che hanno i miei figli e i miei allievi non solo nel padroneggiare l’inglese, ma anche nella ricerca di informazioni in rete; o nel trovare, sulla base di testi brevissimi (magari combinati con immagini), soluzioni a problemi di funzionamento del computer, del cellulare, del telecomando, dei dispositivi elettronici delle nuove automobili; oppure nell’indicare nuovi generi musicali, capi di abbigliamento, aspetti dello sport che agli anziani come me sono sostanzialmente ignoti (e non parlo di nozioni relative alla sfera sessuale, in cui, diciamo la verità, tra adulti e giovani il dialogo è sempre stato problematico). Penso che, al di là degli stereotipi dei boomer, dei nativi digitali, dei millenial, ecc., il salto generazionale mai come oggi sia stato così forte e così percepibile e percepito. Si parla da tempo di “lingua dei giovani” o di “linguaggio giovanile” (il cui studio scientifico è iniziato negli anni Ottanta del secolo scorso), ma solo con il cambio di secolo, man mano che siamo entrati nel nuovo millennio, la distanza tra “giovani” e “adulti” è cresciuta, in parallelo con l’allungamento dell’età media (e quindi delle prospettive di vita) delle persone, ma anche con il protrarsi, spesso eccessivo, se non dell’età, almeno della condizione giovanile (quella in cui si vive ancora con i genitori, si è ancora figli e non padri e madri) e anche, aggiungerei, della crescita del tempo da dedicare al lavoro, che ha sottratto inevitabilmente spazio ai rapporti familiari (e, forse, non solo a questi).
Dopo questa lunga premessa, vorrei segnalare alcuni fatti, di diversa importanza sul piano linguistico, che meritano una qualche riflessione, prima ancora di pensare a specifici rimedi, riprendendo alcuni temi che ho affrontato in vari interventi congressuali di cui ancora non sono stati stampati gli atti e facendo implicitamente riferimento alle risposte del servizio di Consulenza linguistica della Crusca e alle schede sulle parole nuove, a cura della stessa Consulenza, pubblicate in questo stesso sito.
Un primo dato, che è già stato oggetto di studio, è la crescente tendenza, negli ultimi anni, a indicare gli anni, per esempio il 2024, non come duemilaventiquattro ma come venti-ventiquattro, sul modello dell’inglese. L’uso, iniziato dai primi anni Duemila, ha avuto un’impennata con il 2020, in cui la ripetizione venti-venti era particolarmente accattivante, si sta estendendo anche al di fuori dell’ambito giovanile e sembra destinato ad aumentare ancora, almeno fino al 2029 (poi, con il cambio di decennio, l’uso tradizionale potrebbe forse riprendere vigore).
Molta minore attenzione, a quanto mi risulta, è stata finora riservata a un altro fatto: l’ordinamento alfabetico degli antroponimi, che spesso inizia dal nome e non dal cognome della persona: me ne sono accorto qualche anno fa, guardando l’elenco dei cantanti in gara al festival di Sanremo; poi ho appurato che la stessa cosa avviene (e avveniva di certo già in precedenza) per i partecipanti agli incontri a distanza in rete sulle varie piattaforme. Ora, se ci si può rallegrare del fatto che sia stato abbandonato l’uso burocratico di anteporre il cognome al nome – che aveva ricadute presso i semicolti, a cui rimandano il titolo della commedia De Pretore Vincenzo di Eduardo De Filippo e La ballata del Cerutti di Giorgio Gaber (“Il suo nome era Cerutti Gino / ma lo chiamavan Drago / gli amici del bar del Cardellino / dicevan ch’era un mago”) –, va detto però che premettere il nome al cognome può essere lecito solo nei casi di transonimizzazione: che il liceo classico Ennio Quirino Visconti preceda il Torquato Tasso in una lista di licei romani non è troppo sorprendente (anche se nell’uso comune si parla semplicemente del Visconti e del Tasso), ma nel caso degli odonimi, per esempio, almeno negli stradari che si consultavano prima dell’avvento di Google Maps, a dettare l'ordinamento è il cognome del personaggio a cui la via è intitolata, in quanto più importante. Ora, nelle prime versioni di certe tesi triennali, capita a volte di trovare ordinate in base al nome (scritto per esteso) e non al cognome anche le bibliografie che sciolgono le citazioni bibliografiche “all’americana” (autore-data) interne al testo.
Due tratti minimi, di carattere puramente grafico, ma che meritano di essere citati, sono l’uso, ormai quasi generale, dovuto ai programmi di scrittura su computer, dell’apostrofo “rivoltato” in caso di forme aferetiche, per cui capita di trovare grafie come ‘l o ‘500. Ammetto di avere una particolare idiosincrasia per quest’uso (come pure per l’apostrofo “dritto”, che è normale nei testi in rete, specie se si alterna, nei testi a quello “all’inglese” a forma di virgola). Deriva probabilmente dall’inglese (ma non è esclusivo degli ultimi anni, anche se appare solo da qualche tempo decisamente in crescita) l’uso della lineetta che non separa un inciso, e che quindi non viene chiuso da un’altra lineetta, ma da un punto, che fa assumere a ciò che segue un significato esplicativo rispetto a ciò che precede. Non si è invece esteso (almeno finora) l’uso inglese di non inserire spaziature prima e dopo le lineette.
Restando nell’ambito della grafia, sopra ho citato dei versi di una canzone di Gaber, rimati AbAb; ma oggi i testi delle canzoni vengono riprodotti con accapo quanto mai improbabili, che non consentono di cogliere la struttura poetica dei testi. A proposito, questi, per un calco dall’inglese che considero assurdo, vengono a volte chiamati liriche: mi è infatti capitato di leggere sulla locandina di un musical “musiche e liriche”, a dispetto del significato che la parola, sia al singolare sia al plurale, ha nella tradizione italiana. D’altra parte, i calchi traduzione dall’inglese che trascurano totalmente i precedenti significati italiani delle parole, ormai, non si contano più: da conferenza per convegno a cortesia per concessione, da crediti per ringraziamenti all’uso assoluto di dedicato nel senso di apposito (esempio, quest’ultimo, che dimostra come gli anglismi determinino anche mutamenti sul piano della sintassi). Cominciano ad apparire in rete anche esempi di operatico, modellato sull’inglese operatic e/o sullo spagnolo operático, invece di operistico: cantante operatico, musica operatica, canto operatico, con buona pace del successo internazionale del melodramma italiano!
Dovuti soprattutto ad approssimazioni, inaccettabili quando imputabili a giornalisti, sono scambi come beni voluttuosi per beni voluttuari, che potrebbero aggiungersi alla lista di “neosemie” come reciproco per rispettivo, di cui posso dare un esempio tratto da un messaggio di posta elettronica che ho ricevuto di recente insieme ad altri destinatari, in cui il mittente scrive che mette a disposizione “i vostri reciproci numeri di cellulare” (dopo aver detto, all’inizio, che "copio in questa email” non i nomi o gli indirizzi dei destinatari, ma i destinatari stessi!).
La velocità della comunicazione, la fretta con cui un po’ tutti siamo costretti a scrivere testi, anche non informali, le particolarità della scrittura su computer, le tecniche con cui si realizza e le modalità con le quali ci si corregge mentre si scrive (a partire dal “copia e incolla”, utile ma insidioso) e soprattutto la sempre più frequente assenza di rilettura (che in passato era considerata un elemento imprescindibile della lingua scritta, da annoverare tra quelli che la differenziano dal parlato) hanno determinato un cambiamento epocale, che è ormai pienamente e generalmente percepibile nei testi in rete e che in futuro potrebbe accentuarsi ulteriormente, per effetto dell’abbandono (da molti giustamente paventato) della scrittura a mano nell’insegnamento della scuola primaria.
Concludo con un fatto sintattico, che ormai spesseggia nelle scritture, soprattutto (ma non solo) in rete: quello che è stato definito come “gerundio irrelato”, che non si riferisce al soggetto sintattico della frase principale, con la quale ha un rapporto puramente semantico. Ne riporto un esempio tratto dalla rete (riprodotto così come si legge): “Regalo divano e’ macchiato ha delle macchie avendo due bambini!!”. Ora, in un simile contesto diafasico e diamesico (si noti l’assenza di qualunque segno di interpunzione) il costrutto può essere perfino considerato accettabile (è chiaro che i bambini sono i figli del proprietario o della proprietaria del divano, e non di quest’ultimo!). Ma lo è molto meno quando si ritrova in testi di livello diverso, come il seguente: “Entrambi gli spettacoli hanno gioito di un elegante apporto di applausi al finale tributando il successo chiarissimo delle due Mimì e del Rodolfo di Vittorio Grigolo”, dove tributando è logicamente riferito ad applausi, ma sintatticamente legato a Entrambi gli spettacoli. Eppure, quest'uso è in decisa crescita, anche perché costituisce per chi scrive un comodo modo per portare avanti l’argomento del discorso senza dover cambiare la frase (non posso escludere che qualche “gerundio irrelato” sia sfuggito perfino a me) e ormai, in certi esempi, passa quasi inosservato anche a chi legge.
Mi fermo qui: penso che per una prima riflessione sugli attuali cambiamenti dell'italiano i dati presentati possano essere sufficienti. Ma ce ne sono anche altri, e mi riservo di proporli presto in un altro Tema.
L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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Durante il periodo natalizio gli uffici dell'Accademia resteranno chiusi il 24 e il 31 dicembre 2024.
L'Archivio resterà chiuso dal 24 al 31 dicembre 2024 compresi, la Biblioteca dal 24 dicembre 2024 al 3 gennaio 2025 compresi.
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).
Commento di chiusura di Paolo D'Achille
Il mio Tema ha suscitato un gran numero di interventi, come era forse prevedibile, dato l’argomento affrontato, quello dell’italiano contemporaneo, in cui molti italiani si sentono direttamente (e giustamente) coinvolti, in quanto parlanti e in quanto cittadini. Sento anzitutto il dovere di ringraziare tutti coloro che hanno partecipato al dibattito, con interventi anche lunghi e complessi, che in qualche caso hanno dialogato tra loro, a volte anche animatamente, lasciando sullo sfondo il mio intervento per approfondire, del tutto legittimamente, questioni che non avevo specificamente affrontato.
Ringrazio anche per le critiche ricevute, che sono sempre benvenute, perché costituiscono per me uno stimolo a riflettere, a chiarire meglio o a precisare (a me stesso prima che agli altri) il mio pensiero. E questo vale anche per gli interventi deliberatamente provocatori, come quelli di chi sostiene che “descrivere la decadenza dell’italiano non serve a nulla” o di chi afferma che nel mio contributo non ho mostrato novità, ma solo “esempi di maltrattamento della lingua italiana, senza deprecarli decisamente, anzi ammettendo di non esserne immune”. Del tutto immune, per la verità, non sembra neppure chi ha scritto questa frase, vista la precedente: “Non vorrei che in nome della realtà appunto la Crusca registri tutto senza indicarci probi modelli di bello scrivere”, dove quel registri andrebbe corretto in registrasse, vista la dipendenza da vorrei, almeno secondo la “perfetta prosa” di cui la Crusca dovrebbe indicare i modelli.
Ringrazio anzitutto chi mi ha segnalato la svista relativa al nome del bar della canzone di Gaber da me citata, che è “del Giambellino” e non “del Cardellino”; avrei dovuto ricontrollare il testo, ma mi sono fidato della mia memoria. Naturalmente, se il tema verrà stampato, provvederò a correggere l’errore (che comunque non compromette la sostanza del discorso). Ringrazio poi tutti coloro che hanno scritto messaggi di apprezzamento: il primo ad essere postato, nella sua brevità, mi ha davvero colpito e quasi commosso. Ringrazio anche l’accademico e amico Riccardo Gualdo per le opportune precisazioni sull’apostrofo “rivoltato”; il suo intervento mi dà anche modo di dire che spetta a lui il merito di aver segnalato per primo il “gerundio irrelato”. Aggiungo che ho notato anch’io esempi di usi irregolari dell’infinito come quello da lui indicato, ma che, almeno per ora, li rubricherei come “errori”, avvertiti come tali anche da chi legge, diversamente dal gerundio irrelato, che mi pare invece in tale espansione da non essere più percepito come forma deviante (almeno dalla maggioranza dei lettori). Giustissima è l’osservazione sull’espansione di tipo come puro segnale discorsivo: non ne ho parlato nel tema, ma ne ho accennato in altre occasioni, rimandando agli studi specifici di Miriam Voghera; e utilissima, anche come spunto per future riflessioni sul tema, la rassegna di vari altri calchi grafici e sintattici sull’inglese, proposta, del resto, da una vera esperta in materia.
Quanto all’intervento sui rischi cognitivi, oltre che linguistici, che comporta il progressivo abbandono della scrittura a mano, posso dire, senza entrare nel merito delle proposte avanzate, che il tema sta molto a cuore all’Accademia, che ne ha trattato anche sul fascicolo “La Crusca per voi” di qualche anno fa. Negli ultimi mesi se ne sono fatti portavoce soprattutto il presidente onorario Francesco Sabatini e l’accademica Maria Luisa Villa, biologa. La Crusca non solo ha dato il suo patrocinio a varie iniziative al riguardo, ma ha anche aderito all’“Osservatorio Carta, Penna & Digitale” della Fondazione Einaudi, che si occupa proprio di questo.
Vengo così alle due questioni centrali, sulle quali tornano, con vari interventi, a volte (come ho detto all’inizio, anche molto critici), alcuni lettori: il problema degli anglismi e il ruolo della Crusca di fronte alle novità dell’italiano di oggi. Si tratta di argomenti che non intendevo affrontare specificamente nel mio tema – la cui intenzione era di mettere in relazione fatti linguistici, anche minuti, con mutamenti sociali e culturali di portata più vasta – ma che sono venuti fuori dai commenti, dai quali è scaturito un vivace dibattito teso a fare il punto sulle funzioni e sui compiti della nostra Accademia di fronte all'italiano d'oggi, specie in rapporto all’inglese.
Parto proprio dalla seconda questione: l’Accademia è un ente statale, che ha il compito di promuovere e tutelare gli studi sulla lingua italiana, sia del passato sia del presente, e si avvale per legge, ormai da vari anni, di un finanziamento ministeriale, a cui se ne aggiungono altri da vari enti, pubblici o privati, che hanno per fine la realizzazione di specifici progetti (organizzazione di congressi, pubblicazioni di testi particolari, informatizzazione e messa in rete di dizionari o corpora, ecc.) e che (è bene precisarlo, perché forse non a tutti è noto) non riguardano gli accademici, i quali lavorano gratuitamente. La Crusca non ha, istituzionalmente, funzioni di indirizzo linguistico, a meno che non venga esplicitamente interpellata da singoli organi statali, come è avvenuto di recente (oltre un anno fa, ormai) nel caso del Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione a proposito di alcune scelte linguistiche relative al genere (come viene ricordato in uno degli interventi). Inoltre, come è noto, l’Accademia dal 1990 svolge un Servizio di consulenza linguistica, inizialmente sul periodico “La Crusca per voi” e ora soprattutto sul sito, in una pagina apposita, in cui accademici, collaboratori dell’Accademia, docenti di linguistica italiana e di linguistica generale rispondono a domande poste dal pubblico (le risposte vengono poi rilanciate sui vari social dell'Accademia e alimentano dibattiti, spesso molto accesi, tra consenzienti e dissenzienti) e schedano le parole nuove. Pertanto, non sembra obiettivamente giusto rilevare “l'avvenuta metamorfosi dalla Crusca normativa a quella descrittiva, che registra, prende atto, elenca ma non sconsiglia o vieta usi scorretti”: la Crusca sconsiglia eccόme, ma cerca ogni volta di distinguere tra “usi scorretti” su cui si può ancora intervenire, e mutamenti tuttora in corso o addirittura già avvenuti, di cui non si può che prendere atto. Tutte le lingue naturali, infatti, cambiano nel corso del tempo, e almeno una parte dei cambiamenti nasce proprio da quelli che inizialmente sono considerati errori. Oltre tutto, non sempre quelli che vengono ritenuti errori sono tali. Così, condurre una battaglia contro la denominazione Paralimpiadi o Giochi paralimpici non avrebbe alcun senso: infatti, essa si allinea non solo all’inglese Paralympic Games, ma anche al francese Jeux paralympiques, al tedesco Paralympische Spiele e allo spagnolo Juegos paralímpicos. Il nome originario, alle Olimpiadi di Roma del 1960, era quello di Giochi internazionali per paraplegici e quello attuale, certamente modellato sull’inglese, significa ‘olimpiadi per atleti disabili’. Non si tratta dunque di un termine formato col prefisso para- + olimpiadi, bensì (come indica correttamente il Nuovo Devoto-Oli 2024) di una parola macedonia, formata da para(plegico) e (o)limpiadi sul modello dell’inglese paralympics, documentato fin dal 1955 secondo l’Oxford English Dictionary, che fornisce la stessa spiegazione. Proprio l’etimologia chiarisce perché la vocale finale di para- si sia mantenuta e non sia stata elisa prima della vocale iniziale di olimpiadi, che invece è caduta. La forma paraolimpiadi, con lo iato, è peraltro ancora presente e registrata nei dizionari (alcuni dei quali la danno come entrata principale, sebbene oggi sia minoritaria) e chi vuole può liberamente usarla, senza però censurare chi adopera l’altra.
C’è, tra gli intervenuti, chi mette in discussione o guarda con malcelata ironia le innovazioni dell’italiano di oggi da me descritte, che considera errori o fatti del tutto trascurabili: è liberissimo di farlo, ma non può pretendere che l’Accademia dia “voce al suo interno a prosatori e poeti, se ve ne sono” e offra al pubblico “la proposizione di un canone di auctores italiani stabile, da cui attingere le forme corrette dello scrivere”. Intanto, va rilevata l’impraticabilità del concetto stesso di “canone di auctores italiani stabile”, visto che la stabilità è propria solo delle lingue morte; e tale in effetti era ritenuto da molti (ma non a ragione) l’italiano prima della svolta postunitaria, quando era una lingua prevalentemente usata nello scritto. Inoltre, segnalo che tra i membri della Crusca c’è stato in un passato recente il poeta Mario Luzi e ci sono tuttora un poeta (oltre che storico della lingua) come Enrico Testa e due critici come Pier Vincenzo Mengaldo e Vittorio Coletti, il quale ha firmato pochi mesi fa un bellissimo Tema dedicato proprio alla letteratura italiana contemporanea (Ma conta ancora l'italiano letterario?, https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/ma-conta-ancora-l-italiano-letterario/31039, sul quale, guarda caso, non ci sono stati commenti). Ma poi chi intende “tener[s]i fermo alla grande letteratura”, a quale letteratura si riferisce? Oggi l’italiano della letteratura non è, non può, né vuole essere un modello di lingua scritta di testi argomentativi, espositivi ecc., perché spesso, inevitabilmente, insegue il parlato. Certo, ognuno può circoscrivere il proprio orizzonte linguistico all’uso scritto delle persone colte (specie di una certa età) e, in tal caso, è normale che non provi alcun interesse per i mutamenti (o meglio, per le tendenze in atto) dell’italiano di oggi a cui il mio testo fa riferimento, mutamenti che non vengono neppure avvertiti o sono percepiti come fenomeni devianti rispetto al modello di lingua desiderato. Si spiega così il fatto che, a proposito della pronuncia 20-24 dell’anno in corso, si possa affermare candidamente: “quando mi capiterà di leggere i due venti in un romanzo di spessore, allora ne terrò conto e lo accetterò, obtorto collo”; e che il disinteresse per i dialetti sia documentato, e contrario, dalla grafia A ridatece invece del romanesco aridatece, con la a- del prefisso ari- interpretata come preposizione.
Per quanto riguarda l’inglese, infine, è evidente che molti dei fatti da me segnalati (a partire dalla pronuncia dell’anno appena citata) si devono al contatto dell’italiano con questa lingua, mai così stretto come oggi, e – diciamolo pure – alla progressiva invadenza dell’inglese (o meglio dell’anglo-americano) a cui fa riferimento, nella sua voluta estremizzazione, anche l’unico commento firmato con uno pseudonimo. Il tema è trattato più estesamente in altri interventi, con le cui osservazioni concordo quasi sempre. Mi trovano particolarmente consenziente i due opportuni riferimenti a Pasolini (come si può verificare leggendo un mio saggio su questo autore disponibile anche in rete: L'italiano per Pasolini, Pasolini per l'italiano: https://romatrepress.uniroma3.it/wp-content/uploads/2020/03/L%E2%80%99italiano-per-Pasolini-Pasolini-per-l%E2%80%99italiano.pdf) e l’affermazione che “la lingua è di tutti”. Ma non mi pare che si possa sostenere che la Crusca usi “due pesi e due misure nei confronti della pianificazione linguistica e dell'interventismo”, in un caso prestando attenzione al tema della femminilizzazione dei nomi maschili delle cariche e in un altro disinteressandosi all’avanzata dell’inglese (accusa, questa, ancora più netta da parte di chi parla dell’Accademia addirittura come di “ente inutile […] che andrebbe rifondato”). Ricordo, anzitutto, che presso la Crusca è attivo il gruppo Incipit, costituito e coordinato dal presidente onorario Claudio Marazzini, che ha effettuato, dal settembre 2015 fino al gennaio 2024, 23 comunicati (alcuni dei quali hanno preso in esame non uno solo, ma vari neologismi). Pochi, a giudizio di chi (in un intervento peraltro molto cortese) parla di “attività […] davvero assai sporadica” del gruppo, ritenendo la Crusca “non particolarmente incisiva” su questo terreno; pochi ma buoni, direi io; e forse fin troppi, se considerati in rapporto alla scarsa o nulla attenzione che ad essi è stata riservata da politici e apparati statali, con una sola importante eccezione, quella del comunicato n. 13 (numero fortunato, evidentemente) su data breach, di cui l’INPS tenne conto. Va comunque ricordato che durante il periodo più acuto della pandemia il gruppo volle deliberatamente tacere, limitandosi al citato intervento su data breach e, successivamente, a quello su booster.
L’apparente differenza di posizioni che ci viene addebitata sta nel fatto che nel caso della femminilizzazione delle cariche il parere della Crusca è stato spesso richiesto (un esempio è stato ricordato all’inizio) e ascoltato, mentre nel caso dell’inglese no. Ma sull’inutile e anzi dannoso uso degli anglismi nei testi pubblici, sullo spazio che l’inglese ha indebitamente sottratto all’italiano nella scuola, nell’Università e nella ricerca la Crusca ha sempre preso posizione con fermezza, in Atti di convegni, nella pagina del sito dedicata ai Temi, negli interventi, scritti e orali, che vari accademici – a partire dai presidenti di turno – hanno effettuato in varie sedi. L’ultimo, di pochi giorni fa, è stato il mio, e ne accenno soltanto perché lo potete trovare in questo stesso sito.
Ancora grazie a tutti.
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