L'accademico corrispondente Lorenzo Tomasin propone una riflessione su una scrittura spesso negletta: quella, massimamente privata, che caratterizza appunti, promemoria, schemi, brogliacci, note personali.
Agosto 2023
Alcune forme tipicamente odierne di scrittura – ad esempio quella sempre estroflessa e pubblicamente postata delle reti sociali – potrebbero forse indurci a pensare che la comunicazione e l’interazione con l’esterno, con un pubblico, siano scopi fondamentali e quasi ineliminabili del testo scritto. Ma c’è un tipo di scrittura che, comprensibilmente, non solo non si insegna a scuola ma spesso nemmeno si osserva, né si tiene in considerazione anche nella pratica di chi si occupa di lingua per mestiere, come docente o come ricercatore.
Alludo ai testi scritti per sé, cioè ai testi che chi redige immagina possano esser letti (o leggibili) solo da chi li ha scritti. Appunti, promemoria, schemi, brogliacci, note personali. Liste della spesa, persino.
Si capisce bene perché si tratti di un genere trascurato: da un lato, non c’è bisogno di stabilire alcuna norma particolare che faciliti o ottimizzi la comunicazione interpersonale, visto che questo genere di testi non è pensato per avere lettori esterni. Da un altro, si tratta evidentemente di prodotti molto personali e spesso effimeri, perché in genere non destinati nemmeno a una conservazione a lungo termine, sia che si tratti di testi redatti a mano, sia che si tratti d’appunti digitali, eliminabili con la lieve pressione di un dito.
Le forme più elementari di questi scritti sono costituite da gracili appunti: addirittura parole isolate o scarni elenchi, che oggi scriviamo su foglietti volanti che si possono attaccare da qualche parte, ma in genere si scollano presto. Ne esistono però di più complessi, che possono adottare disposizioni grafiche elaborate e originali, oppure distendersi in righe apparentemente convenzionali, sviluppandosi su estensioni più lunghe, seguendo fedelmente il corso del pensiero di chi li produce, ma con tutta la sua accidentata irregolarità e, soprattutto, senza altra esigenza che la comprensione da parte di chi scrive.
Sono testi che tutti produciamo, con varia complessità e con variabile consapevolezza (a volte li scriviamo quasi senza accorgercene, solo per riordinare le idee), e che di solito nessuno ci ha insegnato a comporre. Una delle ragioni per cui vale la pena di osservarli è che essi mettono davanti a una dimensione della lingua alla quale non siamo abituati a far caso. La lingua – ce lo ripetono tutte le grammatiche, fin dalla scuola, e poi ancora tanti raffinati trattati di linguistica – ha quali forme fondamentali il parlato e lo scritto. Il primo, portato al centro dell’attenzione soprattutto dalla linguistica novecentesca, che lo propone come nucleo stesso della lingua, è visto come la forma di comunicazione primaria e caratteristica della specie umana; il secondo è di solito considerato come la successiva trasposizione – regolata, convenzionale, codificata – del primo, di cui riproduce l’aspetto fin nell’adozione, in molte culture, di grafie alfabetiche che altro non sono se non sistemi di rappresentazione dei suoni della lingua parlata.
Ma questo dualismo fondamentale (già scardinato, peraltro, dalla valorizzazione recente delle lingue dei segni, che non sono né parlate né scritte, eppure sono prodotti autonomi e completi del linguaggio) ci fa dimenticare qualcosa. Per esempio, il fatto che la maggior parte della nostra produzione linguistica, cioè di ciò che formuliamo linguisticamente, non è né parlata né scritta, perché resta dentro di noi.
È il cosiddetto discorso interiore, a lungo studiato dagli psicologi ma meno frequentato dai linguisti, almeno fino a quando, come si può fare oggi con raffinate tecniche digitali messe a punto in neurologia, si è dimostrato che un pensiero linguisticamente articolato esiste – accanto a quello puramente pre-linguistico – ed è rilevabile osservando le reti neuronali che si attivano nel nostro cervello quando pensiamo linguisticamente, cioè diamo forma grammaticalmente compiuta al nostro ragionamento, anche senza esprimerlo a voce: le stesse reti che usiamo per costruire una frase pronunciandola a voce alta.
Bene. Il discorso interiore, ossia il pensiero linguisticamente strutturato, è evidentemente la fonte diretta dei testi da cui siamo partiti. Essi non esprimono e non preparano alcuna interazione con un ipotetico pubblico di lettori, come capita normalmente nella scrittura, che di solito traspone l’atto del discorso interpersonale in una comunicazione in assenza e a distanza: quella per cui ancora oggi possiamo "ascoltare" Marco Aurelio, Guicciardini o Leopardi leggendo le loro pagine.
Ho volutamente citato autori di opere classificate come raccolte di pensieri o diari che apparentemente costituiscono forme di scrittura intima. Ma è chiaro che proprio la forma della scrittura diaristica ha una tale consolidata tradizione anche letteraria da costituire una simulazione o una rappresentazione altamente convenzionale, se non artificiosa, del discorso interiore. A volte l’isolamento di chi scrive simili testi è imposto dall’esterno (si pensi a pagine come quelle di Anna Frank o di Antonio Gramsci). Ma anche chi compone un diario, di solito scrive come se un pubblico di lettori ci fosse o ci debba comunque essere, un giorno: la natura di fatto interlocutoria di molta scrittura diaristica è talmente evidente da emergere in movenze tipiche dello stile memoriale, spesso simile a quello epistolare ("caro diario…"). E ciò è tanto più vero, quanto maggiore è la consapevolezza culturale di chi scrive.
I testi rivolti alla trasposizione del proprio pensiero in forma immediata e incurante di una vera comunicazione sono diversi da quelli diaristici, spesso più sorvegliati. Sono testi che rivelano il linguaggio non tanto come strumento di comunicazione, ma piuttosto come modo per dare organizzazione e struttura al pensiero.
Certo, non è facile circoscrivere questo genere di testi, che spesso si confondono con altri tipi di scrittura. Ma si può cercare di raccoglierli lungo il tempo, nei rari casi in cui essi si sono conservati quasi casualmente, in archivi o tra le pagine dei libri, senza confonderli, naturalmente, con gli scartafacci intesi come materiali preparatori o abbozzi di opere scritte, che tanto hanno interessato la critica letteraria dei decenni passati. Il primo getto di una poesia, insomma, è già una poesia; e in generale gli scritti preparatori di altri scritti (o di discorsi orali) hanno una valenza diversa da quelli rivolti solo a sé stessi.
Sorprendentemente, alcuni grandi autori del passato ci offrono materiali che potrebbero essere utili: ad esempio Leonardo da Vinci, che spesso cogliamo nell’atto di prendere appunti su vari quaderni e volumi, ancor oggi conservati perché preziosissimi, durante le sue osservazioni anatomiche o le sue elucubrazioni ingegneristiche; oppure nell’atto di rivolgersi a sé stesso per prescriversi altre ricerche o ulteriori approfondimenti. Spesso le persone di scienza sono portate alla riflessione per iscritto. Un po’ come facciamo anche noi, senza essere Leonardo da Vinci, quando per non dimenticarci una cosa ce la ordiniamo, anche scrivendocela ("prendere la medicina alle 7").
Sono frammenti di discorso interiore che spesso scivolano sulla pagina (o sullo schermo) in situazioni come quelle che abbiamo evocato. Simili schegge aiutano a rendere più fluido, meno rigido, il dualismo scritto / parlato contro la cui estremizzazione si è già a più riprese espressa la linguistica degli ultimi decenni. Non c’è solo il parlato, insomma, a combinarsi con lo scritto nella rappresentazione del linguaggio. E la scrittura stessa, oltre che come formidabile strumento di comunicazione, si rivela in questi casi come mezzo usato per fissare fisicamente ciò che rischia di restare troppo vago e fluttuante nel pensiero, o semplicemente di essere dimenticato. Non a caso, forse, le più antiche forme di scrittura conservate sono di tipo archivistico: tavolette d’argilla con dati amministrativi, realizzate per non perdere la memoria di oggetti specifici e precise quantità. Supporti di memoria esterna, come direbbe oggi, migliaia di anni dopo, l’homo technologicus.
Osservare con più attenzione e magari provare a raccogliere lungo la storia della lingua i testi scritti solo per sé (che di recente abbiamo proposto di chiamare egotesti) può insomma servire a riflettere su dimensioni e funzioni del linguaggio che, pur conoscendo quasi inevitabilmente, a volte siamo forse portati a trascurare. Insomma, in un’epoca che fa della comunicazione un tema fondamentale, non sarà inutile tener presente anche il valore che la lingua ha nell’attività silente ma preziosa della riflessione.
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Commento di chiusura di Lorenzo Tomasin
Ringrazio i lettori che hanno mostrato curiosità per la pista di ricerca alla quale mi sono appassionato da qualche tempo e che ho cercato di esporre nel mio intervento; e ringrazio anche coloro che hanno espresso utili perplessità, che mi aiutano a capire meglio motivi e limiti dell’interesse suscitato da quelli che chiamo egotesti.
È chiaro che lo studio delle scritture personali di grandi pensatori come Leonardo da Vinci ha un interesse specifico legato all’indagine dei processi che portano all’elaborazione progettuale, alla scoperta, all’invenzione originale, o alla speculazione filosofica, scientifica o tecnica: sono, quindi, particolarmente suggestivi.
Tuttavia, non andrà dimenticato che l’oggetto dello studio di un linguista è la lingua in sé, anche indipendentemente da chi la usa o dal suo grado di elaborazione culturale. Da un certo punto di vista indagare il modo in cui funziona la lingua di uno scrivente per nulla originale significa comunque addentrarsi nei meccanismi della produzione scritta, cioè nei modi in cui – spesso in forma irriflessa e con pochissimi filtri culturali o convenzionali – il pensiero si dispone nella scrittura.
Non è in discussione, insomma, il valore degli egotesti più effimeri, o degli appunti più banali, bensì la loro natura di documento, di campione della realtà linguistica, e la loro eventuale vicinanza o aderenza al discorso interiore, territorio difficilissimo da esplorare.
Abitudini culturali inveterate ci inducono a pensare che i testi più elaborati – ad esempio quelli letterari, e tra essi quelli poetici – siano di per sé più interessanti e più degni d’attenzione di testi meno elaborati e meno raffinati. In realtà, è facile osservare che esistono molti testi che, pur essendo formalmente elaboratissimi, hanno un significato testimoniale – storico, psicologico, sociale, e anche strettamente linguistico – più tenue rispetto a quello di testi meno elaborati, occasionali e magari precari, che tuttavia c’informano di realtà storiche e linguistiche altrimenti irraggiungibili.
Non si tratta di mettere appunti e fogli volanti sullo stesso piano di scritti più illustri (molti dei quali, per la verità, sono meno originali e acuti di quanto sembrino o pretendano di essere), ma di comprendere che l’interesse per il funzionamento del linguaggio e per le sue manifestazioni storiche – le lingue – interseca forme e generi della scrittura, coinvolgendo anche i testi più umili e quotidiani.
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