Nomi di mestiere e questioni di genere

di Vittorio Coletti

L'accademico Vittorio Coletti propone una riflessione sul linguaggio di genere e i nomi di professione femminili, temi più volte affrontati nel nostro sito.


In Liguria architetta è diventato titolo ufficiale, riconosciuto dall’Ordine degli Architetti; ma non tutte le architette sono soddisfatte e alcune vorrebbero tenersi il vecchio appellativo al maschile. Il femminile guadagna posizioni ogni giorno in italiano, specie nei titoli di mestiere e professione, la cui mozione femminile è ormai, in tutta Europa, vasta e auspicata (cfr. G. Zarra, Quasi una rivoluzione. I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, a c. di Y. Gomez Gane, presentazione di C. Marazzini, Firenze, Accademia della Crusca 2017). Nella maggior parte dei casi è solo questione di abitudine e quello che sulle prime sembra inaccettabile o ridicolo poi diventa normale. Dottoressa e professoressa sono nate con taglio spregiativo, ironizzando sulle signore saccenti o inaspettatamente (per i maschi) colte, e oggi sono titoli assolutamente comuni e rispettati.

Accettare una nuova parola è sempre difficile. Sembra che ci sia qualcosa che non va, tra il comico e l’errato. Bisogna dire che ci sono però anche problemi linguistici. Se architetta e architetto funzionano esattamente come sarta e sarto, verso cui nessuno avrebbe niente da dire, sulla coppia ingegnere ingegnera (per altro come infermiere infermiera) ci sono più resistenze, perché le parole a desinenza -e in italiano potrebbero essere tanto maschili quanto femminili (il/la teste, il/la rivale), ma in molti casi formano un femminile proprio, anche perché, se morfologicamente invariato, ai due generi possono corrispondere due significati ben diversi (si pensi alla coppia massaggiatore/ massaggiatrice che penalizza scandalosamente il femminile). La marcatura morfologica del femminile è uno dei grandi problemi della lingua, figlio, quasi sicuramente, di ancestrali consuetudini culturali (cfr. G. Lepschy, Lingua e sessismo, in Nuovi saggi di linguistica italiana, Bologna, il Mulino 1989, pp. 61-84), che inducevano, già in latino e anche prima, a contrassegnare l’eventuale femminile di nomi di agente in maniera forte. Celebre è il caso del suffisso -essa (cfr. A. L. Lepschy, G. Lepschy, H. Sanson, A proposito di -essa, in L’Accademia della Crusca per Giovanni Nencioni, Firenze, Le Lettere 2002 pp. 397- 409): usato già nel greco antico e in latino per indicare un ruolo sociale o una carica femminile importante (abatissa da cui badessa), è stato sempre più adoperato in italiano come indicatore di titoli nobiliari o ruoli femminili primari (principessa, contessa oppure generalessa in quanto moglie di un generale) e di mestieri svolti da donne (anche quando in latino il nome cambiava solo genere ma non morfologia, come sacerdos-tis, che valeva tanto, al maschile, per sacerdote, quanto, al femminile, per sacerdotessa) o di animali di sesso femminile (lea o leaena latine per la nostra leonessa, anche se in toscano antico sono attestati la lea e la leona) e infine pure con una valenza ironica o spregiativa (vigilessa, capessa). Allo stesso modo i maschili a suffisso -tore hanno sviluppato, già in latino, una mozione femminile in -trice (attore / attrice). Eppure, nessuno dei due suffissi è, a rigore grammaticale, indispensabile per il femminile di nomi al singolare in -e, vista la disponibilità della desinenza sia per il maschile che per il femminile (la studentessa da studente, ma la cantante come il cantante, il/la preside, il/la custode). Insomma, l’italiano ha spesso rafforzato la mozione femminile con un suffisso, pur, a norma di sistema, non necessario. Non sempre, però; e non solo senza la sistematicità del tedesco, che, per i nomi di mestiere attribuibili ai due generi, aggiunge il suffisso -in a quelli femminili, ma anche perché a volte nella nostra lingua non occorre un suffisso, come abbiamo appena visto (il/la testimone, il/la parente). D’Achille e Grossmann ritengono che la fortuna attuale dei suffissati in -ista per nomi di agente (un/un’autista, un/un’artista) sia dovuta proprio a questa ubiquità di genere al singolare. Anche se la loro fortuna dipende pure dalla prolifica famiglia degli -ismo, di cui -ista è aggettivo e sostantivo corradicale, la spiegazione è plausibile. Tuttavia, come si diceva, le mozioni femminili sono da tempo rafforzate da suffissi, pur, a rigore, non indispensabili (da sindaco si è fatta per un certo periodo e spregiativamente sindachessa invece di sindaca), o da desinenze specifiche, anch’esse non obbligate dal sistema, come nei sostantivi maschili a suffisso -one e -iere (e dunque ancora a desinenza -e) che hanno mozione in -a, desinenza prevalente del femminile in italiano: brontolone e brontolona, pedone e pedona, infermiere e infermiera, carabiniere e carabiniera. Di qui, dunque, ingegnere/ ingegnera, ma anche pastore/ pastora (nonostante la somiglianza con nomi in -tore/ -trice come fattore/ fattrice) e altri femminili in -a di parole a uscita maschile in -ore, come questora, assessora, controllora (in passato accanto e prima di dottoressa aveva circolato anche una dottora), con casi problematici, tipo gli impervi femminili da maschili in -sore (difensore ha sviluppato sia difensora, che difenditrice e nessuna ha funzionato bene; per il femminile di evasore non ci sono ancora notizie sicure). È proprio a causa di questa molteplicità di soluzioni per la mozione femminile di nomi maschili in -e che il parlante resta a volte incerto, preso da perplessità, aggiungendo interrogativi linguistici a quelli culturali (se una donna fa il muratore, sarà muratrice come la scrittrice o muratora come la tintora?).

Se le cose di lingua si potessero regolare d’ufficio si potrebbe stabilire che i nomi di mestiere in -e valgono, come ammesso dalla desinenza, sia per il maschile che per il femminile (un assessore, un’assessore) e si risolverebbero tanti problemi. Ma la lingua e i parlanti hanno le loro abitudini (che chiamiamo regole) e non è facile e neppure possibile cambiarle d’ufficio e in poco tempo. Non c’è mai riuscito nessuno. D’Achille e Thornton hanno mostrato come la lingua vorrebbe invariabile per genere e numero falegname, mentre ne ammette il plurale falegnami, pur essendo un composto col verbo fa- e un nome di massa, legname, che in genere non si usa al plurale. Ora che qualche donna comincia a lavorare il legno, c’è una spinta degli utenti anche verso un pur non impeccabile femminile falegnama, essendosi opacizzato il composto, diversamente da un/una mangiapane, che, essendo composto per ora ben analizzabile dal parlante, resta invariato come richiesto dal sistema. Insomma, l’abitudine induce a cercare una morfologia specifica per il femminile e frena l’accettazione di mozioni invarianti pur linguisticamente legittime. È dunque consigliabile procedere con cautela e caso per caso.

C’è un altro aspetto su cui lingua e società si trovano reciprocamente a disagio con i nomi di professione e relativi titoli. Ma prima va fatta una premessa. Un nome di professione a volte coincide con l’appellativo con cui ci si rivolge alla persona che la esercita (“buon giorno, maestro/maestra”, incontrando un signore o una signora che fa l’insegnante di scuola primaria); a volte no. Se no, non ci sono problemi, come con medico (anche se c’è chi ha rivendicato, con poca fortuna, per le donne laureate in medicina la forma medica) o insegnante o guida: “Maria/ Mario fa il medico/ l’insegnante/ la guida”. Ma se sì, se titolo e nome di professione sono corradicali, la faccenda si fa più complicata. Inutile dire che, in questo caso, pesa il fatto che, all’origine, l’assegnazione del genere al nome di un mestiere è quasi sempre dipesa dal sesso di chi lo faceva prevalentemente. Se il mestiere è antico, diffuso e/o poco specializzato, la disponibilità del suo nome a seguire il sesso di chi lo fa è ormai comune: Tizio sulla carta di identità avrà scritto “di professione impiegato” e Tizia “di professione impiegata”; Caio farà “il cassiere” e Caia “la cassiera”. Ma quando si tratta di mestieri o meglio di professioni più moderne o avanzate o specializzate, perlopiù svolte solo o prevalentemente da maschi (la società del potere e dell’economia è stata sino a ieri molto maschilista, come ben si sa) e quindi dai nomi prevalentemente maschili, la cosa è più complicata. Si pensi al caso della diplomata del conservatorio o della direttrice d’orchestra, che è poco comune (e non gradito dalle dirette interessate) chiamare Maestra e si preferisce Maestro, mentre non ci sono problemi per lo stesso appellativo rivolto a un’insegnante delle scuole elementari. Per altro, non c’è questa riluttanza, nelle orchestre, per il maschile di un direttore, forse perché Maestro al maschile è sempre stato circondato da un’aura che il femminile non ha avuto (anche se non è da escludere che, ove fosse usato per alte professioni, potrebbe prima o poi acquistarla anch’esso). Oppure, al contrario e ancor più vistosamente, si pensi alla quasi inesistenza del casalingo per classificare l’occupazione prevalente di un uomo (lo si dice semmai disoccupato), mentre è così comune la casalinga per quella di tante donne. Il tratto culturale maschilista c’è, è innegabile, e viene da lontano.

Ma allora come fare quando nome di professione e titolo sostanzialmente coincidono, sono corradicali e quello è maschile ma lo fa una donna cui spetta quindi il titolo al femminile? Se mi chiedono che lavoro fa l’architetta Maria Rossi, potrei rispondere diversamente da “l’architetto”? Sì, certo: anche “l’architetta” potrebbe funzionare, come “la maestra” di cui sopra. Ma se dico che ha aperto uno studio, dirò “da architetto” o “da architetta”? Per la verità, potrei cavarmela con “di architettura”.  Ma se è richiesto che un progetto sia firmato da una persona laureata in architettura che cosa debbo dire: “da un architetto” o precisare “da un architetto o da un’architetta”? Se è ormai preferibile scrivere e rivolgersi “all’avvocata Anna Bianchi”, può essere necessario precisare che Anna Bianchi ha l’abilitazione alla professione di avvocato o ha uno studio di/da avvocato, anche se, in questo secondo caso, potrei evitare lo scoglio ricorrendo al più solenne “studio legale”. Ma il problema resta. Un conto è, infatti, il titolo (usato in genere come appellativo: con “buongiorno, architetta”, si apostrofa la conoscente incontrata per strada) e un conto il nome della professione. Purtroppo, come si diceva, non tutte le professioni hanno un nome diverso dal titolo con cui ci si rivolge a chi le esercita. Come ci si comporta in questi casi? Perché se dico senza esitazioni “Maria è avvocata” (verbo copulativo con legame stretto tra soggetto e complemento predicativo), invece esito a dire “Maria fa l’avvocata” (verbo predicativo in funzione copulativa e legame più lasco tra soggetto e complemento predicativo) e mi viene più spontaneo dire “fa l’avvocato”? Certo, ripeto, molto dipende dalla cultura depositata nella lingua, perché se è spontaneo dire “Maria fa la maestra”, dovrebbe esserlo altrettanto dire “Maria fa l’avvocata o la ministra”. Ma il problema si pone. E anche per un altro aspetto non sottovalutabile.

Bisogna infatti chiedersi se un nome di mestiere o professione non del tutto coincidente con l’appellativo (e quindi col genere corrispondente al sesso della persona che ne ha il diritto) sia utile dal punto di vista linguistico e sociale. Poniamo che una legge stabilisca che una certa autorizzazione è rilasciata “dal prefetto”; nessuno penserà che tutti i prefetti siano maschi e in ogni caso nessuno rifiuterebbe come non valida la firma di una prefetta, perché chiunque capirebbe che, in questo caso, non si parla della persona ma dell’ufficio. Certo, i perbenisti, che oggi iniziano le loro lettere con “Care tutte e cari tutti” (per non dire di coloro che scrivono “car* tutt*”, violando l’ortografia tradizionale per non irritare le femministe più radicali e, da qualche tempo, anche quanti non si riconoscono in nessuno dei due sessi), potranno in un prossimo futuro pretendere e ottenere che la legge scriva che l’autorizzazione è rilasciata “dal prefetto o dalla prefetta”: ma anche in questo caso si penserebbe comunque più alla persona che all’ufficio, il quale, anche se fosse vacante del/della titolare, dovrebbe funzionare egualmente, rilasciare l’autorizzazione, e quindi ha bisogno di un suo nome. È vero, si può obiettare, che si potrebbe parlare di “prefettura”; ma se debbo precisare chi firma? Allo stesso modo si parla dell’elezione del sindaco anche se poi vi concorrono solo candidate. Il nome dell’incarico o professione può essere maschile (come prefetto), ma anche femminile, come guardia: nomi che restano del loro genere a prescindere da chi li fa (“Tizio è stato fermato da una guardia di finanza”, sia che in concreto lo abbia fatto un finanziere o una finanziera). Certo, i nomi di carica o professione solo maschili sono enormemente più numerosi di quelli solo femminili. Ma bastano anche i pochi casi noti al femminile (spia, vedetta) per dimostrare che il nome di un mestiere, prima o poi (sentinella, medico), ha finito per prescindere dal sesso di chi lo fa. L’italiano, del resto, non ha un terzo genere, come il neutro del latino (che non era né maschile né femminile, aveva altre funzioni e solo di rado si riferiva a esseri umani) e usa per i nomi di mestiere ora un genere ora l’altro, con larga prevalenza del maschile per le ben note ragioni culturali. La crescita dei nomi di mestiere da prestiti integrali inglesi invariabili (manager, designer) e da sigle (PR, CEO) favorirà forse un maggior equilibrio tra nomi di genere morfologicamente diverso (ma dobbiamo auspicarli per questo?), anche se il problema si porrà comunque, quando si dovrà anteporre loro un articolo o concordare con essi un aggettivo (“il permesso deve essere vidimato dal/ dalla manager didattico/didattica”). Nei nomi italiani non si può prescindere dal genere. Per questo, un nome di cariche o di ruoli che prescinda dal sesso di chi di volta in volta li copre è utile e a volte necessario, e, secondo me, non bisognerebbe aver timore ad usarlo nel genere assegnato, anche se oggi non coincide più interamente con quello dell’appellativo.

Redazione
26 marzo 2021 - 00:00

Commento di chiusura di Vittorio Coletti
Nei commenti al tema da me svolto, tutti pertinenti e generosi, sono emersi, tra gli altri, un problema specifico e uno generale. A quello specifico (se si fa architetta su architetto, allora, si legge in due interventi, perché non geometro su geometra quando a esercitare la professione è un uomo?) hanno già risposto i lettori stessi (e mi si perdonerà se non aggiungo “e le lettrici”, usando per la sua comodità il maschile inclusivo), ricordando che non pochi nomi in a possono essere al singolare tanto maschili quanto femminili (il/la pediatra). A quello generale, sul peso che la lingua, adottando o no certe soluzioni, può avere sui comportamenti e giudizi sociali (in tema di ruolo e dignità della donna, nel nostro caso), provo a rispondere dicendo che la lingua si modifica più in seguito a innovazioni sociali e culturali che per precederle e favorirle. Si scopre una cosa e le si dà un nome, si afferma una nuova sensibilità e si cambiano certe abitudini linguistiche (si pensi a parole un tempo comuni e oggi evitate perché in sospetto di discriminazione razziale o fisica). Ciò non toglie che la lingua, a sua volta, affermi e moltiplichi certe novità e che se queste restassero in essa innominate o nascoste stenterebbero di più ad avere successo nella società (intendiamoci: sindache ce ne sarebbero egualmente anche se si proibisse di dire sindaca, a meno che questa proibizione non fosse, cosa invero non infrequente, uno stolto corollario del terribile divieto delle prime: le dittature lo hanno sempre fatto, cancellano le parole per dare forza all’ abrogazione delle cose o delle persone). Poi bisognerebbe distinguere tra piani diversi della lingua: ce ne sono alcuni più immediatamente plasmabili e modificabili dalle novità nel costume (il lessico), altri più refrattari a cambiamenti repentini (si pensi all’accordo al maschile di una serie di nomi maschili e femminili, che sta modificandosi solo in parte e molto lentamente), altri nocivi alla funzione comunicativa, che è quella primaria di ogni lingua: se è una forma di cortesia, può valere la spesa delle parole in più salutare un pubblico radiofonico dicendo: “Buon giorno alle nostre ascoltatrici e  ai nostri ascoltatori”, ma sarebbe diseconomico e inutile scrivere in una lettera commerciale: “I nostri clienti e le nostre clienti riceveranno un omaggio”, perdendo il vantaggio funzionale del maschile inclusivo, che sarà anche stato, all’origine più remota, frutto del maschilismo della cultura, ma che ora è solo una comodissima opzione grammaticale che non esalta e non mortifica nessuno. Un punto, questo, che tocca quello scottante e controverso del cosiddetto maschile “non marcato”, una definizione che molte linguiste rifiutano (non a torto, perché morfologicamente il maschile è sempre marcato, anche se non sempre in esclusiva nella forma della parola: es. maschili singolari in -a e in -e). Ma è chiaro che l’evidenza della marcatura morfologica non deve far dimenticare la neutralizzazione semantica, per cui se dico “il piacere di una vacanza al mare” nessuno attribuirà quella gioia in esclusiva ai maschi. Una lettrice infine ha chiesto maggiori o ulteriori chiarimenti e non potendolo fare qui rinvio a un bel libretto di Giulio Mainardi, Lingua italiana e questioni di genere. Quattro pareri, in corso di stampa presso Reverdito, chiaro e ben ragionato, rispettabile anche quando non del tutto condivisibile. A Mainardi debbo una riflessione con cui chiudere questo tema del mese. Lui l’ha fatta per giustificare, tra l’altro, la sua preferenza per l’articolo femminile davanti a nome proprio di donna, rifiutato con fastidio da molte femministe e anche da molti linguisti: la giusta lotta alle discriminazioni non deve far dimenticare la proprietà e spesso anche il pregio delle differenze (esempio di Mainardi: Sabatini e la Sabatini consentono a noi linguisti di sapere subito se si tratta del Presidente emerito di questa Accademia o dell’Autrice del primo fortunato libretto contro il sessismo nella lingua italiana).

Rispondi

Francesco Codecasa
17 marzo 2021 - 00:00
Per quanto riguarda il femminile di "architetto", considerando la forma desueta "architettore", ho visto che qualcuno propone "architettrice". Che cosa ne pensate?

Rispondi

Francesco Amadei
13 marzo 2021 - 00:00
Interessante anche il caso del nome di una professione storicamente e tipicamente femminile, che è stato mascolinizzato: l'ostetrica. Ufficialmente "levatrice" fino al 1937, poi divenuta "ostetrica", infine dal 1997 "ostetrica/ostetrico", dopo che fu legalmente consentito anche agli uomini di esercitare tale professione sanitaria (attualmente in Italia circa 300 uomini contro 22.000 ostetriche donne) . Vani i tentativi di mantenere invariata la -a (al pari di pediatra, dentista o guardia medica). Nella lingua spagnola si usa "obstreta" invariato (con eccezione in Argentina: obstétrico). In francese "sage-femme" (letteralmente "esperta-donna"), negli anni '80 la proposta di un "sage-homme" fu stroncato dall'Accadémie Français; per distinguere gli uomini si usa talvolta "sage-femme homme" (l'esperta-donna uomo).

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Antonio Marcaletti
28 febbraio 2021 - 00:00
Sarò breve. Dato che l'architetto diventa architetta e il ministro diventa ministra per le femmine , posso proporre geometro e pediatro per i maschi di questa professione ? Grazie Antonio Marcaletti

Rispondi

Risposta
Francesco Bianco
08 marzo 2021 - 00:00
Detto in parole povere, chiare (spero) e non del tutto esatte da un punto di vista strettamente linguistico (ne sono consapevole): "Geometra" e "pediatra", così come i nomi in "-ista" ("analista", "dentista", etc.), appartengono a una classe morfologica il cui femminile corrisponde al maschile. "Avvocato" o "operaio", invece, appartengono a una classe morfologica il cui femminile è in "-a".
Risposta
Umberto D3
07 marzo 2021 - 00:00
Pediatra e geometra sono in tutti i dizionari della lingua italiana entrambi "s.m. e f. (pl. m. -tri, f. -tre)" Il Battaglia è online
Irene Franco
23 febbraio 2021 - 00:00
Molto interessante e chiaro, soprattutto perché non si nega la stratificazione culturale (sessista) sui generi dei mestieri, spesso maschili. La domanda però che rimane, e alla quale non penso si possa rispondere presto, è: chiamare una cosa (in questo caso, un ruolo) può aiutare la legittimare l'esistenza della cosa stessa? In poche parole, se volgo al femminile (anche dove, come abbiamo letto, non ce ne sarebbe ragione morfologica) un mestiere/ruolo, trasmetto a livello sociale un messaggio di parità?

Rispondi

Rossella Di Palo
23 febbraio 2021 - 00:00
Ho letto con interesse la riflessione del prof. Coletti, in seguito ad una discussione avuta con alcune colleghe sulla necessità di declinare al femminile le professioni. Ritengo che sia giusto e doveroso riconoscere, quando possibile nel rispetto della lingua italiana, il genere poichè è giusto che la lingua anche in questo caso si adegui ai costumi mutati nel tempo. Questo non perchè le professioni cambino nel momento in cui vengano esercitate da una donna ma perchè esse identificano un ruolo nella socetà che non può continuare ad essere identificato come appannaggio maschile. Ma la discussione nata era relativa a quanto fosse corretto nel rispetto alla linga italiana utilizzare i termini delle professioni al femminile, anche quelli ormai comunemente adottati come dottoressa o professoressa. E' questo un punto su cui mi paicerebbe avere maggiori chiarimenti e un confronto.

Rispondi

DANIELA TESTA
23 febbraio 2021 - 00:00
Dobbiamo ringraziare il professor Coletti per questo intervento interessante e necessario; intervento che pone in evidenza due concetti su cui si dovrebbe riflettere. Il primo riguarda la struttura, l'essenza della lingua italiana; l'altro la storia della lingua. La lingua italiana obbedisce, si fonda su "regole" che non possono essere modificate in modo arbitrario e secondo le urgenze ideologiche del momento; la lingua italiana si è formata e si è evoluta anche in relazione al suo essere entità storica e sociale; da ciò deriva che sia la struttura della lingua - le regole - sia la sua storia non possono essere tacciate di maschilismo nel modo banale in cui spesso viene fatto. C'è poi da chiedersi: dire "ministra" (ma il termine "ministro" indica una professione) al posto di "ministro" ripaga davvero le donne della loro condizione ancora, purtroppo, subalterna a quella di un uomo?

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Loredana Mascia
22 febbraio 2021 - 00:00
Articolo molto interessante

Rispondi

Daniele Imperi
22 febbraio 2021 - 00:00
Strano che non vi siano questioni su quelle mansioni e professioni dai nomi femminili svolte anche, o forse soprattutto, specie in passato, dagli uomini, come guida, sentinella, recluta, guardia. A nessuno è mai venuto in mente di pretendere dei ridicoli guido, sentinello, recluto, guardio.

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Risposta
Federico Russo
22 febbraio 2021 - 00:00
I sostantivi femminili come guardia o sentinella rappresentano un piccolo gruppo a sé stante, che non modifica nessuna regola generale. "Guardio" è ridicolo, "ministra" è corretto
Fabio Senatori
22 febbraio 2021 - 00:00
Ho letto con piacere l'interessante riflessione del professor Coletti, che ringrazio particolarmente. Ho esercitato per quarant'anni la professione di veterinario e mi è sempre piaciuto definire le mie colleghe "veterinarie", sebbene, declinando il termine al singolare, abbia sempre avvertito qualche esitazione, poché "veterinaria" indica anche la branca della medicina a cui le colleghe, i colleghi ed io ci siamo dedicati.

Rispondi

Alessandro Condina
22 febbraio 2021 - 00:00
Intervento molto interessante e attuale. Segnalo solo due dettagli: il femminile regolare di «medico» è «medica» e con l'uso diventerà familiare come «operaia» o «sindaca». Quanto ai nomi derivati dall'inglese, segnalo che anche lì in passato quando la professione era svolta da una donna il termine si femminilizzava, come nei casi dei titoli nobiliari (king - queen; prince - princess; duke, duchess, etc) e delle professioni come «actor/actress» e «manager/manageress».

Rispondi

Micol Saba
22 febbraio 2021 - 00:00
Da vecchia proff. di lettere e antica femminista umilmente dico di rispettare la lingua italiana anche col quel po' di maschilismo che la connota. Usiamo gli articoli, magari aggiungiamo "signora architetto", "signora sindaco", vorrei continuare ad andare dal "dentista" anche se è un uomo o dalla dentista se donna.

Rispondi

Evelina Lazzarin
22 febbraio 2021 - 00:00
Grazie professor Coletti! Avevo seguito all’Università di Genova i suoi corsi e fatto con lei due esami di filologia romanza: le sue lezioni erano interessantissime e questo articolo non è da meno.

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