Il dialetto in televisione ieri e oggi

di Gabriella Alfieri, Ilaria Bonomi

Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.


Giugno 2024

In tempi recenti si è avuto un rilevante incremento della presenza del dialetto nella televisione, e su questo riteniamo opportuno richiamare l’attenzione e fare alcune considerazioni.
Questo incremento si inscrive in una ripresa del dialetto di ampia portata nella società italiana: a partire dagli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, il dialetto ha ritrovato spazi e funzioni in ambiti diversi, come strumento comunicativo, ma soprattutto espressivo, alternativo e aggiuntivo alla lingua italiana, ormai posseduta e usata dalla quasi totalità dei parlanti. In una realtà sociolinguistica di italofonia stabilizzata, il dialetto, prima ostracizzato come codice inferiore alla lingua, viene riabilitato e conquista nuovi ruoli e nuove funzioni nella società. Se la sua vitalità nell’uso comunicativo è ormai decisamente ridotta, e limitata, come si sa, ad alcune aree del paese (il Nord-Est, il Sud), una notevole rivitalizzazione del dialetto ha investito, in misura crescente, la letteratura (narrativa, poesia), il cinema, la televisione, la canzone, i fumetti, e la rete (si veda al riguardo: Sergio Lubello e Carolina Stromboli [a cura di], Dialetti reloaded, Firenze, Cesati, 2020). Una neodialettalità a cui ha contribuito indubbiamente il gradimento da parte dei giovani, che ne fanno una componente importante del loro linguaggio, in funzione espressiva, emotiva e ludica (Maria Silvia Rati, I giovani e l’italiano, Firenze, Cesati, 2023), mostrando di apprezzare l’uso del dialetto particolarmente nella canzone, nella televisione e nel web. In alcuni di questi contesti un certo uso del dialetto era preesistente, ed è aumentato: nella poesia, nella narrativa e, in particolare, nel cinema e nella canzone, ambiti in cui la dialettalità si carica di funzioni nuove, come pure nella televisione. Nel cinema, a un ricorso al dialetto funzionale soprattutto alla mimesi realistica e alla comicità, si è affiancato, se non decisamente sostituito, un uso del dialetto come marca di appartenenza a un gruppo, soprattutto di giovani (si pensi ai trapper napoletani) nella linea di una forte mescolanza di codici con valenze molto differenziate (Fabio Rossi, Lingua italiana e cinema, nuova ed., Roma, Carocci, 2023). E il cinema, nella interconnessione tra i media dei nostri giorni, è strettamente legato alla fiction televisiva, che del dialetto fa un uso molto rilevante, in relazione a gruppi di giovani, in particolare nella realtà napoletana, sulla quale si insisterà più avanti. La componente giovanile gioca certo un ruolo importante anche nella canzone, dove l’uso del dialetto napoletano è assurto alla ribalta della cronaca nell’ultimo festival di Sanremo, con le polemiche sul testo del brano di Geolier. Come hanno mostrato vari studi recenti, le funzioni del dialetto nella canzone si sono ampliate e diversificate rispetto al passato, nella duplice direzione di un uso ludico-espressivo e di un uso ideologico-simbolico, proprio soprattutto del rap e del trap, ampiamente rappresentati a Sanremo 2024. Polemiche hanno accompagnato il napoletano "modificato" di Geolier: ma, oltre all’ovvio rilievo che si tratta di un uso “libero” perché artistico, in cui le parole sono unite alla musica, va sottolineata la valenza ideologica di certi attacchi al cantante, in nome di un presunto napoletano autentico e superiore agli altri dialetti.

La valenza ideologica ha giocato un certo ruolo nella rivalutazione e nella rivitalizzazione dei dialetti, superando la semplice difesa di un’identità locale da salvaguardare, nel segno di un’insofferenza per la dimensione linguistica unitaria: un’insofferenza che ha accentuato, da parte di determinati gruppi e parti politiche, la battaglia per la difesa dei dialetti, anche in ambito scolastico e istituzionale. E da molte persone, specie in rete, dove tale difesa è diventato un tema ideologico in numerosi siti e nei social, e da dove, come è risaputo, derivano molte false opinioni correnti, viene mal intesa la presenza nel patrimonio Unesco della “lingua napoletana” e della “lingua siciliana”, segnalate in quanto lingue a rischio di estinzione (sulla dialettologia “parallela” a quella scientifica, che diffonde in rete false opinioni, ha già richiamato l’attenzione Nicola De Blasi nel suo tema Regioni e dialetti, ottobre 2023).

Prima di addentrarci nella complessa questione del dialetto in televisione ieri e oggi, ci sembra utile riprendere lo spunto da questa "dialettologia parallela" per alcune precisazioni funzionali al nostro discorso. La dialettologia scientifica non solo smentisce l’esistenza del macrodialetto meridionale, ma soprattutto fornisce criteri oggettivi, di natura storico-linguistica e socio-politica, per distinguere tra dialetto e lingua. Nell’evoluzione dal latino parlato che determina la storia linguistica interna, tutti gli idiomi usati nella penisola – detti appunto italo-romanzi – presentano tratti fonetici, morfologici, lessicali e sintattici che ne garantiscono la natura di lingue, dotate di una propria “grammatica”; ma nella storia esterna, condizionata da fattori politici, economici, religiosi e artistici, i destini di quegli stessi idiomi sono divergenti. Mentre il toscano ha sviluppato con continuità sin dal Medioevo le condizioni istituzionali e culturali per diventare “lingua”, e come tale essere normativizzata nel Cinquecento, gli altri volgari si sono fermati al ruolo di dialetti, confinati nella comunicazione privata e quotidiana, e coltivati nella poesia e nel teatro. Siciliano e napoletano, che pur vantano una cospicua tradizione letteraria, non possono considerarsi lingue sul piano politico-istituzionale, in quanto storicamente sono stati subalterni al toscano negli usi pubblici (amministrativo-giudiziario, accademico-universitario, ecc.), anche sotto i regimi preunitari.

Una cosa dunque è il dialetto come "lingua del cuore", che, in quanto veicolo delle tradizioni locali e familiari, fermenta nella memoria e nell’animo di ciascun individuo, un’altra cosa è il dialetto come varietà subalterna a uno standard linguistico destinato a usi scientifici, istituzionali e rituali. Così, se ci si passa l’analogia, altro è il cuore come organo anatomico, oggetto di studio della medicina, altro è il cuore come sede dell’emotività e dell’affettività.

Sulla base di tali presupposti proviamo a storicizzare per cenni il ruolo del dialetto nei primi settant’anni di vita della televisione, seguendone l’evoluzione dagli anni Sessanta ad oggi, in ordine ai cambiamenti sociali, culturali e politici del paese. I macrogeneri in cui il dialetto gioca un ruolo rappresentativo sono intrattenimento e fiction. Nell’intrattenimento – che ci limitiamo a menzionare – la dinamica comunicazione-espressività affidata alla diatopia (variazione geografica della lingua) vede il passaggio dall’intrattenimento acculturante (1954-75) a quello autoreferenziale (narcisistico) (1976-99), per approdare nei primi decenni del terzo millennio a quello fidelizzante della tv-verità.

La fiction, su cui ci soffermiamo, è pervasa dalla funzione mimetica sin dalla paleotv, in cui si ammetteva la tradizionale dialettalità del teatro napoletano di Eduardo De Filippo o genovese di Gilberto Govi, ma negli sceneggiati della teleletteratura si imponeva la scissione tra italiano aulico e farciture dialettali. Se nel Mulino del Po di Bolchi (1963), come nel romanzo di Bacchelli, la prammatica traduzione istantanea in italiano dei pochi proverbi emiliani garantiva comprensibilità e normatività linguistica, nel Mastro-don Gesualdo di Vaccari (1964) l’ipercaratterizzazione ambientale, affidata a una dialettofonia che non sarebbe piaciuta a Verga, suscitava l’insofferenza di pubblico e critica. Achille Campanile osservava sarcasticamente che, in base a tale presunto realismo linguistico, i fratelli Karamazov dell’omonimo sceneggiato avrebbero dovuto parlare in russo! Nella famiglia Benvenuti (1968), prototipo delle serie italiane, si esibiva per la prima volta il continuum sociolinguistico, dall’italiano aulico e dal neostandard dei protagonisti borghesi al dialetto ciociaro della tata, anticipando le modalità della neotelevisione (1976-2000). L’italiano "oralizzato" (Gabriella Alfieri, Ilaria Bonomi, Lingua italiana e televisione, nuova ed., Roma, Carocci, 2024) delle nuove serie, indigene o importate, si distribuiva su tre livelli di marcatezza: monolinguismo italiano lievemente intaccato da diatopia fonetica e da labile diastratia (variazione sociale della lingua) a fini mimetici (Vivere, Centovetrine, Incantesimo, Una famiglia in giallo); continuum di varietà italiane con media marcatezza in diatopia e diastratia, con adeguata mimesi in diafasia (variazione situazionale della lingua) (Don Matteo, Il Maresciallo Rocca, Un medico in famiglia); marcatezza stilistica elevata con ampia variazione sociolinguistica, dall’italiano colloquiale, regionale, popolare, informale trascurato, gergale, a più o meno rilevanti inserti in dialetto (dalla pionieristica Piovra del 1984 alle serie longeve Il commissario Montalbano, Un posto al sole).

Nel 2010 iniziava la cosiddetta post-televisione (Alfieri-Bonomi, volume citato), contraddistinta dalla contaminazione tra emittenza digitale terrestre e piattaforme, nella quale sembra estremizzarsi una nuova modalità di intenso ricorso al dialetto, con risultati di ipercaratterizzazione, in bilico tra espressivismo e documentarismo fotografico. Lo slittamento, come hanno mostrato gli studi sulla lingua del cinema, è parallelo a quello che ha investito il dialetto filmico, dalla caratterizzazione coloristica della commedia all’italiana agli usi marcatamente intenzionali e simbolici dell’idioma locale, motivati dalla "risorgenza" dialettale che è scaturita dalla perdita del dialetto come mezzo primario di comunicazione. Nell’ultimo quindicennio, in sostanza, la fiction ha esasperato la riproduzione mimetica del "paesaggio linguistico", concomitante a quello geografico, e affidata a un parlato sempre più realistico, plurilingue, espressionistico, che, come quello cinematografico, si attesta sul documentarismo, sulla simbolizzazione di dialetti e interlingue (usi incerti della lingua in fase di apprendimento), e sulla enfatizzazione della marginalità.

Da un parlato recitato realisticamente simulato nella neotv, in cui la diatopia si limitava a pochi tratti salienti di tipo intonativo o idiomatico, si è passati nella post-tv a un plurilinguismo ampiamente inclinato verso un substandard emarginante. La prima tendenza è ben rappresentata dalla serie lucana Imma Tataranni, in cui la caratterizzazione espressiva si limita a pronuncia e lessico regionali, senza distinguere tra stili situazionali e stili di parlato, o dalla napoletana Mina Settembre, in cui il dominante italiano regionale delle protagoniste borghesi è contrappuntato dalla dialettofonia o dall’alternanza lingua-dialetto delle popolane. Entrambe le serie orientano la percezione più verso il rispecchiamento che verso la caratterizzazione mimetica dei personaggi e dell’ambiente.

L’estremizzazione dialettale implica inevitabilmente il ricorso ai sottotitoli per garantire la comprensibilità del testo audiovisivo in serie come L’amica geniale o Mare fuori, ispirato al film La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi, che non a caso era tratto dal romanzo dello stesso autore di Gomorra. Nella trascrizione audiovisiva de L’amica geniale si ribalta il rapporto che nel testo narrativo contrapponeva un dialetto virtuale, evocato da Elena Ferrante con didascalie metalinguistiche ("disse in dialetto") all’italiano neostandard della cornice diegetica (Giovanna Alfonzetti, Il dialetto molesto in Elena Ferrante, in G. Marcato [a cura di], Dialetto e società, Padova, CLEUP, 2018, pp. 303-314; Rita Librandi, Una lingua silenziosa: immaginare il dialetto negli scritti di Elena Ferrante, in “Kwartalnik Neofilologiczny”, 66, 2/2019, pp. 385-398): nella serie l’interazione dialogica in dialetto (caldeggiata anche dai produttori italoamericani di origine napoletana), differenziata sociolinguisticamente secondo i personaggi, esplicita la dialettalità latente dei romanzi (si veda il saggio di Lorenzo Coveri nel citato volume Dialetti reloaded). In Mare fuori, invece, domina una dialettalità estremizzata e gergalizzata, con qualche riarticolazione, da una serie all’altra, dei registri dialettali e gergali tra narrazione e dialoghi e tra i diversi personaggi.

Accanto alle funzioni espressive che già gli inserti dialettali avevano nelle fiction della neotelevisione, come ad esempio in Un posto al sole, ora è accentuata la funzione mimetica e identitaria. Il fatto che la distribuzione in streaming si rivolga a un pubblico più selezionato e consapevole, molto diverso da quello “familiare” della tv generalista, consente agli sceneggiatori di mostrare anche gli aspetti più crudi della realtà contemporanea, dandone una rappresentazione spesso scabrosa. Ecco che il dialetto irrompe in tv come codice delle subculture urbane e delinquenziali, come il napoletano di Gomorra e Mare fuori, e del recente Clan, che lo alterna all’italiano regionale, o il romanesco di Romanzo criminale. In Mare fuori, in particolare, la radicalizzazione mimetica acuisce e legittima gli aspetti negativizzanti, producendo l’isolamento accentuato e la ghettizzazione anche linguistica di queste comunità marginali. La marcatezza diventa marchiatura socio-ambientale e socio-comunicativa. Proprio Mare fuori con il suo enorme successo ha contributo a una certa fortuna, anche tra i giovani di altre aree d’Italia, del napoletano come linguaggio di caratterizzazione sociale e di gruppo.

Tra i modelli alternativi alla napoletanità estremizzata di Mare fuori c’è il romano di Strappare lungo i bordi (2021), serie animata del fumettista Zerocalcare, alias Michele Rech: il dialetto di Rebibbia, quartiere della periferia romana in cui Rech vive, assume una spiccata funzione introspettiva ma non per questo meno identitaria. L’andamento monodico, per cui l’autore presta la propria voce a tutti i personaggi, con l’unica eccezione dell’armadillo-coscienza critica, doppiato da Valerio Mastandrea, dà un carattere straniante alla serie ma, come rileva Massimo Palermo (Massimo Palermo, Sul romanesco di Zerocalcare, in “Le parole e le cose”, 24 novembre 2021, https://www.leparoleelecose.it), è uno strumento per allineare su un unico registro linguistico tutti i temi trattati, alti o bassi, in una sorta di “personale polifonia”. Si realizza così un uso innovativo del dialetto, non più destinato, come nell’Amica geniale e in Mare fuori, alla rappresentazione della delinquenza o della subalternità, ma all’espressione di una realtà sociale suscettibile di riscatto e integrazione.

Un’ultima notazione va fatta per l’aspetto della fruizione audio-visiva, dal punto di vista sia della produzione sia della ricezione del testo. Innanzitutto, il testo audiovisivo è un tutto organico, che va gustato integralmente: se con la coda dell’occhio si devono seguire i sottotitoli, solo in parte si coglieranno le sfumature fisionomiche e gestuali dei personaggi nel dialogo. Testo visivo e testo verbale, dissociati nella percezione acustica dei dialoghi in dialetto e nella percezione visiva dei sottotitoli, possono andare incontro a una sfasatura percettiva, soprattutto nella parte di pubblico abituata al doppiaggio. Senza dire che la sottotitolatura risponde a esigenze di mercato per rendere il prodotto più appetibile a certo pubblico straniero, amante dell’ipercaratterizzazione dialettale, come nei film di mafia o in Gomorra.

E, infine, in questo mondo liquefatto in cui ci è toccato di vivere, l’impatto diretto nelle fiction con la dialettofonia gergale degli emarginati neutralizza, come le immagini violente e crude dei duelli mortali o delle sale operatorie, la capacità immaginativa, soprattutto dei giovanissimi. Se fiction è relato al latino fingo, come la deprivazione della lettura comporta l’atrofia dell’immaginazione per cui non si sa più “fingersi nel pensier” paesaggi o personaggi, così la trascrizione fotografica di gerghi e dialetti comporta l’incapacità di figurarsi l’espressività di mondi estranei alla nostra esperienza diretta. E si pregiudica la piena godibilità e comprensibilità del testo finzionale. Del resto, la verosimiglianza linguistica del parlato televisivo non si può spingere sino al livello del documentario. Il dialetto presentato annulla il dialetto rappresentato, e il “fantadialetto” criptico sacrifica, come nel fumetto, la propria portata realistica a una stilizzazione falsamente autentica (si veda il saggio di Daniela Pietrini nel citato volume Dialetti reloaded).

Forse, pensiamo, nella fiction televisiva andrebbero coltivati e sviluppati filoni in cui alla riproduzione integrale e gergale del dialetto, da circoscrivere a segmenti della narrazione o a singoli personaggi, si affianchi, anche con la modalità dell’alternanza di codice, la sua giustapposizione all’italiano. Un italiano sociolinguisticamente variato, come quello che effettivamente caratterizza la nostra multiforme realtà parlata, puntando a un italiano regionale differenziato, oltre che geograficamente, anche dal punto di vista sociale e situazionale. Riteniamo in definitiva preferibili nella fiction soluzioni linguistiche che, come in Mina Settembre, Imma Tataranni, Un posto al sole, Strappare lungo i bordi, riflettano la realtà socio-comunicativa senza sacrificare l’espressività e la finalità mimetico-realistica, ma senza esaltare modelli di comunità ghettizzate, prive di qualsiasi prospettiva di riscatto.

Redazione
28 agosto 2024 - 00:00

Commento di chiusura di Gabriella Alfieri e Ilaria Bonomi

Il Tema investiva tematiche di rilievo e attualità come la televisione e il dialetto, interrelate tra loro, e su questa interrelazione ci aspettavamo un riscontro, anche critico, maggiore. Immaginavamo che l’argomento dei dialoghi integralmente dialettali nella fiction televisiva suscitasse reazioni di spessore "ideologico", relative alla comunicazione attraverso i media, al dialetto e al suo rapporto con l’italiano nella società di oggi, anche perché in conversazioni avute con amici e amiche durante la stesura del testo avevamo riscontrato un coinvolgimento immediato e appassionato a questo argomento, tanto di assenso quanto di dissenso. Ci sono stati invece solo alcuni interventi sui dialetti, sull’opposizione tra dialetti e lingua italiana, su questioni focalizzate sul napoletano, dalla sua resa grafica al suo uso nella canzone oggi, non rispettoso della tradizione: argomenti sostanzialmente irrelati rispetto al tema specifico del dialetto nella fiction televisiva, eluso dai commenti anche per la scarsa – e da alcuni dichiarata – dimestichezza con le fiction che abbiamo nominato. Siamo sinceramente rammaricate delle parole di critica allo stile e al taglio comunicativo del nostro tema: ci era sembrato opportuno, in linea con l’impostazione di questa sezione del sito dell’Accademia, impostarlo con un’argomentazione "scientifica", usando la necessaria terminologia senza essere criptiche, per fornire a un pubblico non specialistico gli strumenti per superare impressionismo e soggettivismo. Forse, come appare da alcuni commenti, il grado di specialismo e i riferimenti precisi alle fiction, inevitabili, hanno disturbato qualche lettore. Confidiamo comunque che la complessiva esiguità di commenti lasci intendere che la maggior parte dei lettori e delle lettrici abbia compreso e condiviso la nostra riflessione. Nel chiudere il Tema, non possiamo che ribadire le nostre idee, facendo appello ai grandi autori che di dialetto se ne intendevano, dal Manzoni al Verga. L’autore de I Malavoglia, com’è risaputo, rifuggiva dallo scrivere in puro dialetto, ma, innestando i dialetti (siciliano, milanese) nel “superdialetto” toscano, costruì un italiano regionale letterario comprensibile a tutti. Diversi sono oggi, nella generale padronanza dell’italiano e nella risorgenza dei dialetti a cui si è fatto cenno, i modi di innestare il dialetto nell’italiano dei romanzi, sfruttando del dialetto le immense potenzialità espressive senza compromettere la comprensibilità della lingua, come mostrano molti romanzi recenti, in particolar modo ambientati proprio in Sicilia.

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Luigino Goffi
06 agosto 2024 - 00:00
1. Si è da poco festeggiato (il 1° agosto) Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Quest'autore è molto importante - relativamente al tema dei rapporti tra dialetto e lingua - perché in una sua poesia in dialetto napoletano, ha applicato - tra i primi, per quello che mi consta - l'aferesi consonantica alla preposizione specificativa "di" per velocizzarla in "i". In "Per la nascita di Gesù", si trova, infatti, la locuzione "no muorzo i Paraviso" per significare "un pezzo, un po' di Paradiso" (v. La poesia in dialetto, cura Brevini, collana I Meridiani, ed. Mondadori, tomo 1°, pag. 1272 in alto). Il suo discorso, però, rimane dialettale, perché Egli utilizza la stessa parola "i" per indicare un'altra cosa: l'articolo ("i gente", "i Pasturi" (pag. 1270)): una confusione inammissibile per un'idioma che pretenda di chiamarsi "lingua". La soluzione - che, tra l'altro, permette di risolvere anche il secolare problema italiano dell'indebita caduta dell'articolo femminile per motivi metrici - sta nel considerare la "il" come articolo comune - e non come solo maschile singolare - in modo da non dover più usare la "i" come articolo, ed evitare, così, la confusione. 2. Il velocizzo della preposizione specificativa è un bisogno molto diffuso nei vari idiomi. I dialetti consonantici - cioè quelli che accettano di far terminare in consonante le proprie parole, e, per questo, molto distanti dalla lingua italiana - fanno l'operazione opposta togliendo la vocale, come in "il strèdi d campagna" del dialettale parmense Renzo Pezzani (cit., tomo 3°, pag. 3368 al centro). Si tratta di un'operazia inaccettabile pel bel suono dell'italiano, ma, almeno, questa frase ha il pregio di usare la "il" come articolo comune (alla maniera del maltese), come vado proponendo da tempo per l'italiano, al fine di svincolare la parola "i" dall'uso articolare, e attribuirle, così, l'univoco significato di preposizione specificativa veloce. Il francese parigino - velocissimo - fa la stessa operazione, perché la schwa di "de" tende a non pronunciarla: /la Gare de Lyon/ = °la gar d lion°. L'inglese non formale adotta una soluzione ancor peggiore: la preposizione "of" la elimina proprio (tranne che nei cognomi come O'Brian (= of Brian, come i nostri Di Vincenzo, Di Giovanni, ecc.)), invertendo i termini (es.: "a copper boiler" = "una caldaia di rame"), con confusioni che, a volte, finiscono addirittura in Tribunale per l'esatta interpretazione (come nell'esempio fatto dal Bernabò Silorata nella sua "Grande grammatica ragionata della lingua inglese", ed. Le Lettere, 2005, pag. 80 al centro). Se adottassimo, per velocizzare l'italiano, tale sbagliatissima soluzione, non capiremmo più se °città stato° significasse "città-Stato" (la Polis, i Comuni medievali, et similia) oppure "stato di città" o "condizione della città", ecc.. 3. Dopo quanto detto risulta chiaro che l'unica soluzione possibile per velocizzare la "di" (quando si ha bisogno di velocizzare, s'intende) è quella di trasformarla in "i" (aferesi consonantica) e, contemporaneamente, di non usare più la "i" come articolo, sostituito da "il" quale articolo comune. Ebbene: a chi si devono queste geniali soluzioni per migliorare la lingua?: ai dialetti!

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Luca Fiocchi Nicolai
07 agosto 2024 - 00:00
Chissà che penserebbe Benedetto Croce delle proposte di esperantizzazione in salsa dialettale della nostra lingua italiana, dell' ingegneria linguistica mossa dal solo scopo di rendere più veloce la lettura di un testo di qualche centesimo di secondo; forse Umberto Eco e Bruno Migliorini proverebbero quell'interesse onnivoro per ogni parto originale del pensiero umano. Ma insomma, la lingua, e il dialetto ancor più, sgorgano spontanei dal bisogno di comunicare pensieri ed emozioni ma, come fatto insieme individuale e collettivo, nelle punte più inventive necessitano della sanzione sociale o almeno del gruppo, ristretto quanto si vuole, che ha deciso di adoperare quell' insieme e non un altro di segni formalizzati e persino convenzionali atti a veicolare messaggi. Gli uomini odiano le complicazioni e accettano le novità solo se possono essere fatte proprie con naturalezza e gioia.
Luca Fiocchi Nicolai
29 luglio 2024 - 00:00
Se la dimensione in cui opera dialetto è l'oralita', mi pare difficile che esso possa sopravvivere altrimenti che come accento o calata da quando miliardi di persone hanno cominciato a scrivere quotidianamente non una lettera stentata all'emigrato in America ma decine se non centinaia di messaggi stentatissimi quanto si vuole ma prossimi e i. itativi della lingua nazionale. Oggi scrivono tutti, e in continuazione (alcuni molestando pure), su Whatsapp o i "social", e questa prassi scrittoria condiziona eccome, costringendo a pensare in italiano (sovente scorretto questo flusso di coscienza si incana in una punteggiatura casuale); in italiano perché il popolano nei quartieri promiscui deve pur comunicare in qualche modo col borghese( o nobile decaduto) dirimpettaio, e il tecnico fissare appuntamenti chiari e diagnosticare sempre chiaramente problemi alla caldaia. Presumo quindi che le "fiction" non si allontanino dal vero né quando ci propinano parlate dialettali annacquate senza passato remoto né quando al contrario fanno entrare in casa nostra (vostra è più preciso) mondi ai margini ove il dialetto stretto immagino assolva la funzione di codice di riconoscimento e di esclusione del nemico più di quanto soddisfi a reali esigenze di comunicazione. Per questa c'è, quando si passa alla scruttura, un melange di italiano fonetico ("vabbène" ) e televisivo, "impreziosito" da termini malintesi di psicanalisi ("narciso-bipolare" detto da chi ha la terza media) , dei "social", di inglese (ah, quanta" privacy"!), il tutto senza cura di punteggiatura. Forme dialettali e lingua letteraria sono destinate alla citazione esotica, ai maniaci del plurilinguismo snob e al setaccio enigmistico di chi deve formare frasi e si serve, all'uopo, indifferentemente, di voci in uso come di voci e che i dizionari contrassegnano con la croce.

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Luigino Goffi
23 luglio 2024 - 00:00
1. La recente triste soppressione di due cattedre di italianistica alla Humboldt di Berlino, dovuta alla diminuzione degli iscritti ai corsi per la sostanziale inutilità dell'italiano nel mondo del lavoro, ci sollecita a spingere sull'acceleratore di una riforma della lingua italiana volta a renderla più veloce, precisa e bella: le tre caratteristiche che renderebbero la nostra lingua più appetibile pel mondo moderno. Lo strumento principe pel velocizza ce lo suggerisce proprio il dialetto: l'aferesi consonantica per permetter la sinalefe, e, di conseguenza, la diminuzione sillabica. Il napoletano utilizza a piene mani questo strumento di grande espressività e velocizzazione, ma tale idioma rimane un dialetto - e non diventa una lingua - perché non comprende che la velocizzazione non può avvenire a scapito della precisione. Se, ad esempio - e qui facciamolo in italiano -, trasformassi la preposizione "di" in " 'i" (es.: "vento di maggio" > "vento 'i maggio") io sì velocizzerei, ma, al contempo, creerei una confusione, perché il suono °i° è già utilizzato per indicare un'altra cosa: l'articolo ("i tavoli"). Si evita questa confusione, e, dunque, si risolve il problema, solo introducendo la regola che "il" non sia più articolo solo maschile singolare, ma articolo comune (come fa il maltese), colla conseguenza di non dover più usare la parola "i" per l'articolo (sostituita da "il": "il tavoli", e non "i tavoli"), e così di poterla usare come velocizzazione di "di", senza possibilità di confusione. L'eliminazione totale della confusione permette di eliminare il simbolo dell'aferesi: non c'è più bisogno di scrivere "vento 'i maggio", è sufficente scrivere "vento i maggio", senza l'apostrofo. 2. Ovviamente, "i" non sostituisce "di" sempre, ma solo quando serve, a gusto dello scrittore, perché non sempre devo velocizzare, a volte posso voler rallentare. Un esempio chiarisce quanto detto. E' noto il titolo di un libro di Remarque: "Tempo di vivere, tempo di morire". Ora, chi ha sensibilità pel metrica sente subito che mentre la prima parte del titolo funziona musicalmente, la seconda no, perché "morire" (al contrario di "vivere") è parola piana. Ci sono solo due soluzioni al problema - guarda caso entrambe utilizzate dal dialetto -: o sdruccioliamo la parola "morire" ottenendo: "Tempo di vivere, tempo di mòrire" (si noti l'accento sulla "o"), oppure, appunto, usiamo l'aferesi consonantica, ottenendo: "Tempo di vivere, tempo i morire": soluzione preferibile. Ora possiamo notare che nella prima parte va bene la "di" ("Tempo di vivere"), nella seconda è meglio la "i" ("Tempo i morire"). Ripeto ancora, però, che tale perfetta soluzione è possibile solamente se - respingendo, come deve fare una lingua, quella confusione che, invece, il dialetto accetta - la parola "i" non significhi più articolo; sostituita, in tale funzione, dall'articolo "il" considerato come comune (es. "il gatti"; e non "i gatti", che significherebbe "di gatti"). 3. Sarebbe un grave errore considerare come marginali queste problematiche. Fernando Palazzi lo sapeva molto bene, visto che nella sua Novissima grammatica italiana (ed. Principato, 1954, p. 279 in alto) qualifica come "strascicata" la locuzione "Il mazzolino di fiori di pesco del cugino di Carlo" per via delle numerose "di", semplici e articolate. Sennonché, la soluzione fornita dallo stesso Autore ("Il mazzolino fatto con fiori di pesco che ci ha portato il cugino di Carlo") non convince la sensibilità moderna - data la sua lunghezza esasperante -. Il vero problema non sono le "di", semplici o articolate, ma sono le "d" che fanno da inciampo rallentando il discorso, e perciò vanno eliminate con aferesi per permettere la sinalefe. La locuzione, insomma, deve diventare "Il mazzolino i fiori i pesco 'e cugino i Carlo": questa sì che scorre bene. Ma c'è un problema: mentre la "i" nel senso di "di" non si confonde coll'articolo perché non lo è più (visto che "il" funge da articolo comune), la " 'e" si confonde - nel suono - colla congiunzione, per cui la devo distinguere. Non basta aver messo l'apostrofo per indicare l'aferesi, perché questo si vede, ma non si sente. La differenza è vera se c'è anche nel suono, non solo nello scritto. Ad esempio se sento pronunciare °filosofia e scienza° che cosa significa? "Filosofia & scienza" o "filosofia della scienza"? La soluzione di questo problema consiste in una dimostrazione tra le più rocambolesche - ma inconfutabili - che mi sia stato dato di trovare. Ma non c'è più spazio; devo rinviare a prima possibile - prima che qualche altra università espunga l'italiano dalle sue aule.

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Luca Fiocchi Nicolai
24 luglio 2024 - 00:00
Il Sig. Goffi vede problemi gravi di dizione e ci offre la soluzione maltese, la quale forse genera altri problemi a loro volta risolti dal Goffi, che, essendo terminato lo spazio, darà al mondo l'inconfutabile dimostrazione in altra occasione. Devo dedurre che il latino financo epigrammatico fu sostituito dai notari col volgare per vivere essi in un epoca che prediligeva la lentezza. Io invece ho sempre ingenuamente creduto che prima della grammatica normalizzatrice alla maniera di Claudio imperatore venisse la lingua parlata effettivamente dalla comunità. Ma, immagino, essa, la comunità, si adeguera' placida e convinta ai savi consigli. E il dialetto? gli italiani colti, no, il popolo ha presto eletto, sia pure con qualche contributo veneto e lombardo, il volgare toscano a " lingua" della cultura e letteratura nazionali prima, degli atti ufficiali poi. Naturalmente ogni suggerimento per rendere "appetibile" l'italiano all'estero è gradito, a condizione di non alienarci pure gli amanti stranieri di Dante, Petrarca, Tasso, Pirandello e Calvino.
Angelo Forgione
12 luglio 2024 - 00:00
Scrivo in quanto autore delle "polemiche" attorno all'ortografia napoletana del pezzo di Geolier presentato a Sanremo '24, supportato da Maurizio De Giovanni. Da anni studio appassionatamente l'ortografia del napoletano letterario (attualmente sto scrivendo un saggio tematico), quello di cui bisognerebbe fissare uno standard, trattandosi di una vastissima produzione letteraria e paraletteraria, culturalmente considerevole e certamente senza uguali, nell’ambito dei diversi dialetti italiani, per ricchezza, qualità, continuità e respiro internazionale. La superiorità del napoletano non è presunta ma affermata dai tanti poeti e commediografi che hanno prodotto arte universale, e non risiede astrattamente in una valutazione di tipo ideologico. Le autrici dell'articolo le hanno definite "polemiche", termine che comporta accezione e percezione negative. Non si è trattato di polemiche ma di doveroso richiamo al rispetto a quella tradizione, che non può essere nascosta dietro 'un uso "libero" perché artistico', come si legge nello stesso pezzo. Cosa direbbe la Crusca se si facesse un uso "libero" dell'italiano? Se è vero che un errore ortografico, grammaticale e lessicale per una lingua insegnata è umiliante per chi lo commette, e non lo è nel caso si tratti di lingua non insegnata. Va da sé che il pericolo vero del napoletano è la perdita di un prestigio conquistato non grazie all’uso popolare che se n’è sempre fatto ma alle condizioni realizzate negli ambienti colti della Napoli tra Ottocento e primo Novecento, mai verificatesi con la stessa incisività prima e dopo. Così, un dialetto talmente nobile, consolidatosi nella sua importanza, va incontro al depauperamento della sua valenza intellettuale e tende a limitarsi al suo valore affettivo di lingua emotiva della pancia, necessaria per essere più efficaci e veri nell’espressione spontanea dei buoni sentimenti e della rabbia; un linguaggio per sentirsi parte di una comunità ma un linguaggio che non implica in alcun modo la cura da dedicare al pensiero scritto. Ecco perché una mutazione può rivelarsi involutiva. Dunque, non nascondiamo dietro l'uso artistico del napoletano il problema vero (se di problema si può parlare), quello dell'incapacità di scrivere un dialetto in modo corretto. Il napoletano è lingua viva, quindi in mutazione nei secoli, certamente sì, in continuo divenire nel tempo a seconda di come la si usa. Qualcuno giustifica certi scempi con questa processo, e allora bisogna chiarire cos'è mutazione. Il napoletano è cambiato nel tempo, come è naturale che sia per un idioma sempre vivo che, in quanto tale, non va considerato come un monolito che ha attraversato inalterato l’incedere dei secoli. Oggi non si parla lo stesso napoletano che si parlava nel primo Novecento, ma neanche allora si parlava il napoletano del Settecento. L’evoluzione ha attraversato circa sette secoli, ed è stata quindi assai graduale e lenta. Basti pensare alle abbreviazioni degli articoli (es: lu->lo->‘o), delle preposizioni semplici (es: da->‘a), delle preposizioni articolate (es: de lo->d’ ‘o). La logica di mutazione se ne va a farsi benedire quando l’articolo /‘o/ (lo/il), discendente dall’articolo /lo/ in uso fino all’Ottocento, viene scritto ormai troppo spesso /o’/, laddove il segno diacritico dell’apocope segnala un’inesistente elisione, cioè sottrazione di lettera dopo la o, e scimmiotta per ignoranza il segno di aferesi da porre prima della vocale per soppressione della consonante iniziale, che rende tronco l’articolo, anche in pronuncia: da /lo/ a /‘o. ‘O Nnapulitano diventa gravemente o’ nnapulitano. Potrei proseguire con certe voci verbali (es: haje->hê / avimmo->âmmo), e al troncamento di molti infiniti dei verbi (es: parlare->parla’->parlà) e dei vocativi (es: dottore->dotto’->dottò / Peppino->Peppi’->Peppì). Come si noterà, la mutazione ortografica ha seguito delle logiche che hanno determinato regole. E quale logica o regole esistono in una napoletano che ognuno scrive "ad mentula canis", come gli pare? Nascondere questa deriva dietro un uso "libero" perché artistico è un errore delittuoso. Circa poi la valenza ideologica che avrebbe avuto un certo ruolo nella rivalutazione dei dialetti nel segno di un'insofferenza per la dimensione linguistica unitaria, mi preme evidenziare che a Napoli, per motivi sociali oltre che storici, il dialetto è rimasto assai vitale negli usi comunicativi degli affetti e nelle varie espressioni dell’arte partenopea, resistendo anche nel periodo più critico, quello degli anni Sessanta, e pur in presenza di una crescente diffusione della lingua italiana. Per il napoletano si deve parlare di resistenza dialettale, non di quella risorgenza di cui ha parlato Gaetano Berruto nel 2006 per i dialetti d'Italia. Napoli, dunque, non rischia la perdita del suo dialetto ma rischia la perdita del prestigio del suo dialetto. E la sensazione, pressoché netta, è che ciò farebbe piacere a qualcuno.

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Luca Fiocchi Nicolai
09 luglio 2024 - 00:00
Giacinto Spagnoletti attribuiva all'opzione dialettale in poesia da parte di alcuni scrittori fino al Belli un intento di esclusività letteraria in alternativa nativa ad un italiano giudicato ripetitivo e manieristico. Si giudicava quello della poesia dialettale un campo vasto da arare per sottrarsi a modelli ritenuti deteriori e abusati. Ovviamente, a parte il Posto al Sole, eterno appuntamento della TV pedagogica (di sinistra), non conosco le fiction citate nella trattazione del tema, ma intuisco l'anelito delle Accademiche ad un uso del dialetto meno esotico o come mero documento di rivendicazione di una identità periferica, dato in pasto alla curiosità e delibazione di un pubblico snob, e più espressivo e lirico, in una ricreazione personale dell'artista capace di operazioni di stile. A me pare che al ghetto sia destinata, a far compagnia ai dialetti in via di estinzione, pure la lingua italiana letteraria (ma esiste più?) e non solo, tutte quelle realtà linguistiche immobili "da salvare", tra cui c'è il latino ma non forse il "dialetto" di metropoli multietniche reso irriconoscibile, sfigurato e normalizzato dall'italiano televisivo e dall'inglese, articolatosi debolmente nella differenziazione regionale, che i nuovi venuti apprendono per integrarsi, ma avrebbe interessato forse poco Giovanna Marini.

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Luigino Goffi
05 luglio 2024 - 00:00
Pare che il dialetto riesca a esprimere le emozioni meglio della lingua italiana. Nel teatro, nelle arie liriche, nelle canzoni, nelle finzie (=fiction), c'è tutto un rifiorire di termini vernacolari. Ma perché, sul punto, il dialetto dovrebbe essere migliore della lingua? perché dovrebbe essere più espressivo dell'italiano? E' utile constatare che il dialetto ha iniziato ad avere successo proprio nello stesso periodo (gli anni '80) in cui ha iniziato la sua espansione, in Italia, l'inglese. Ciò significa che l'inglese e il dialetto italiano hanno un qualcosa in comune che l'italiano non ha. Per individuare questo quid, basta andarsi a rileggere il Manifesto dei futuristi, in cui, sommersa da tante affermazioni sciocche e pericolose, una frase giusta e profetica c'è, e cioè che il mondo si è arricchito di una nuova bellezza: la bellezza della velocità (punto 4 del Manifesto del Futurismo, in Marinetti, Teoria e invenzione futurista, cura Luciano De Maria, Meridiani Mondadori, pag. 10 centro). La velocità è l'essenza del nostro tempo, e quasi tutto (per fortuna non tutto!) è informato ad essa. Ed è proprio questa l'essenza del dialetto: il dialetto è l'idioma della vita semplice, che non ha bisogno di tanta precisione, e, quindi, può usare una stessa parola breve in più significati, al contrario della lingua, che, dovendo essere precisa, è costretta, a volte, a usare parole più lunghe. Insomma: il dialetto è veloce ma non è preciso, mentre la lingua è precisa ma non è veloce. Il che cosa significhi che il dialetto è veloce ma non è preciso ce lo fa capire un verso napoletano del poeta Ferdinando Russo: "Cu 'e scorze 'e pane e ll'osse d' 'a munnezza" (da: La poesia in dialetto, cura Brevini, Meridiani Mondadori, pag. 3119 centro (tomo 2°)). Ora, "scorze 'e pane" è più veloce dell'italiano "scorze di pane" perché, in quella locuzione napoletana, l'aferesi della "d" permette la sinalefe, e, dunque, la diminuzione di una sillaba, e questa velocità - che all'occhio del profano sembra irrilevante - è quella che permette al napoletano quell'espressività che è tipica di questo idioma. Ricordiamo i Futuristi: "velocità è bellezza". Il napoletano utilizza ampiamente questa tecnica - a cui deve il suo successo -: "viento 'e maggio", "Munasterio 'e Santa Chiara", "pianefforte 'e notte", ecc. Ma il veloce napoletano cade nell'imprecisione, perché, nel suddetto verso, una stessa parola ("e") viene usata per indicare ben tre cose diverse: un articolo ("le scorze"), una preposizione ("scorze di pane") e una congiunzione ("pane & ll'osse"). Una lingua non cade in questa vaghezza; l'italiano, infatti, attribuisce, a questi tre significati, tre particelle diverse. D'altronde - abbiamo visto - l'italiano è lento, perché - per non perdere in chiarezza - non applica, qui, l'aferesi consonantica. Applicando, invece, tale tecnica all'italiano potremmo velocizzarlo e renderlo più bello ed espressivo. Non si intende, qui, ovviamente, combattere espressioni come "vento di maggio" o "chiaro di luna". Si intende semplicemente dire che espressioni come "vento i maggio" o "chiaro i luna", essendo più veloci, e, dunque, più belle - ma non sempre: a volte è bella la lentezza -, andrebbero considerate perfettamente italiane, senza dover essere viste come semplici licenze poetiche. Ma, allora, perché queste locuzioni non sono entrate nell'uso? Per una ragione molto semplice: in italiano la parola "i" è già presente con un altro significato, e cioè come articolo ("i libri", "i tavoli", "i girasoli", ecc.), e - abbiamo visto - una lingua non può permettersi certe imprecisioni. Qui finisce l'aiuto del dialetto e comincia quello della lingua maltese, che usa "il" non già come articolo maschile singolare (come, invece, fa dispersivamente l'italiano), ma come articolo comune: maschile, femminile, singolare e plurale, lasciando alle desinenze dei nomi il compito di individuare il genere e il numero. In questo modo, la parola "i" non sarebbe più un articolo, ma un sinonimo veloce della preposizione "di", permettendo, quindi, a ciascuno di usare la forma più conveniente di volta in volta: quella lenta ("di") o quella veloce ("i"), aumentando l'espressività e, dunque, la bellezza dell'italiano, senza comprometterne la precisione. Che cosa ha permesso questo grande risultato? certamente il maltese colla sua "il" comune (che, tra l'altro, permette di risolvere il secolare problema italiano dell'indebita caduta dell'articolo femminile per motivi metrici); ma la parte del leone l'ha fatta il dialetto colle sue aferesi consonantiche e sinalefi. Ed ecco, in conclusione, la grandezza del dialetto. Il dialetto è un fondo, un tesoro da cui attingere idee per far crescere quello che comunque deve essere il nostro idioma: la lingua italiana.

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Luca Fiocchi Nicolai
27 giugno 2024 - 00:00
Propongo a linguisti di buona volontà di offrirci un esame altrettanto rigoroso, ma in uno stile meno asfissiantemente specialistico, del linguaggio usato in questo saggio cruscante, in cui abbondano termini concettosi e inespressivi infarciti di prefissi, quasi ad esibire un'alterita' rispetto all'uomo mediamente colto, che pure, armato di buona santa pazienza, sarebbe interessato all'argomento. Niente, si è obbligati e a conoscere le fiction e a leggere molto lentamente ogni passaggio, ansando fino all'ultimo rigo in un tourbillon scoppiettante e parossistico di spaccamenti in cento di minicapelluzzi. Meglio le considerazioni di Parini sul milanese. Se non altro è alta letteratura.

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Rossano De Laurentiis
12 giugno 2024 - 00:00
Quasi a fare eco al tema dell'approfondimento della ripresa del dialetto nei media e nella televisione, con la fiction di successo, noto l'uso del termine di provenienza siciliana MASCARIATA / MASCARIARE. Attestato nel Devoto-Oli, non nel Sabatini-Coletti. Presente nel GDLI, https://www.gdli.it/contesti/mascariare/895883 L'occasione sui media è data dal risultato delle elezioni europee, sfavorevole al M5S del presidente Conte. L'articolista Francesco Merlo , https://www.repubblica.it/politica/2024/06/12/news/grillo_sconfitta_m5s_populismo-423215634/ ricorre al sost. "mascariata" , ma più con un significato di "finta", "diversivo", "mascherata" (vd. MASCHERERIA, GDLI, https://www.gdli.it/JPG/GDLI24/GDLI_Supplemento_2009_Pagina_508.jpg), che non di "delegittimazione". Può darsi che il titolista abbia sbagliato nel pescare dal ricco repertorio colorito dei meridionalismi, dovendo usare più propriamente un concetto reso da AMMUINA.

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