In margine a: Un’estate tra le voci dialettali nelle carte dell’AIS

di Annalisa Nesi

Prendendo spunto dalla rubrica che l'Accademia ha creato per i profili social durante l'estate del 2023, l'Accademica Annalisa Nesi invita a discutere del nostro rapporto con il dialetto. 


In agosto l’Accademia ha sospeso il consueto rapporto con gli utenti, ma ha tenuto loro compagnia (Facebook, Twitter e Instagram) con l’iniziativa Un’estate tra le voci dialettali nelle carte dell’AIS (Atlante Linguistico ed Etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale, 1928-1940), che è stata molto apprezzata come mostrano i commenti ai singoli post e al post di congedo.

Luisa di Valvasone e Simona Cresti, collaboratrici della Consulenza linguistica, hanno ideato un sistema snello e immediato per mettere in contatto l’utente con le testimonianze dialettali. Una volta spiegato cos’è un atlante linguistico e fornito informazioni sull’AIS, è stata riprodotta la carta “del giorno” isolando, ogni volta, due aree geografiche e segnalando in ciascuna una località specifica da cui è stata prelevata la parola dialettale, impressa poi sull’immagine. Le parole dialettali sono visibili nella grafia fonetica adottata dall’atlante, ma campeggiano sulla carta nella forma adattata all’ortografia della lingua, dunque meno rispondente alla pronuncia, ma più leggibile per tutti.

I lettori, informati della parola italiana che è titolo delle carte dell’AIS, sono subito coinvolti in un dialogo dalla domanda "Come si dice dalle vostre parti?", un invito accolto da molti, in misura diversa a seconda del referente della carta, tanto da offrire materia per riflessioni di natura diversa.

Prima di tutto qualche informazione in più per chi non conosce l’iniziativa: sono state scelte 27 carte e per ciascuna due parole appartenenti a varietà dialettali della compagine italoromanza distanti fra di loro. La prima proposta era la denominazione dell’estate cui hanno fatto seguito nomi relativi a fenomeni atmosferici, ad animali, a oggetti della vita quotidiana, all’età dell’uomo, ecc. La carta che ha avuto più commenti è “i bambini” (756), a seguire “la sedia” (579) e “stai zitto” (478); ultime in classifica “il gambero” (55) e “giocare a mosca cieca” (31). La penultima ha avuto meno riscontri perché il tipo lessicale è sempre gambero (latino cammarus) e varia soltanto la forma per l’esito fonetico, localmente differenziato nell’evoluzione dal latino ai dialetti: ad esempio, emiliano gambar; marchigiano e umbro meridionali gammero / gammaru; lucano u iammǝrǝ. Al cambiamento dello stile di vita è imputabile l’ultima posizione in graduatoria, infatti "fare a mosca cieca" non è più un gioco diffuso, dunque noto. Tuttavia, gli utenti che sono intervenuti hanno segnalano denominazioni diverse da quella accolta in lingua: a gattaorba, di alcuni dialetti lombardi e piemontesi; a orbisin veronese, cioè ‘all’orbettino’ (lucertola senza zampe creduta cieca); a gattaceca, segnalatoci per Roma, ma di ampia diffusione centro-meridionale anche nella variante gattacecata; a crapacònchina nuorese; a mucciatedda di alcune località calabresi. Siamo lontani dalla ricchezza delle testimonianze AIS, ma è anche vero che è trascorso un secolo da quelle inchieste e da tempo i bambini non giocano più nei cortili, nelle piazze e nelle strade dove lo spazio consentiva loro di impegnarsi in giochi di movimento.

Il successo di un’esperienza precedente, molto più pianificata e articolata, faceva certo ben sperare sull’adesione dei parlanti: Fabio Tosques e Michele Castellarin dell’Istituto di Romanistica dell’Università Humboldt di Berlino hanno progettato un Atlante della lingua italiana quotidiana (ALIQUOT), digitale e interattivo, con l’obiettivo di raccogliere le testimonianze dei parlanti riguardo all’uso quotidiano della lingua e di cartografarle. Sono stati “lanciati” gruppi di domande lessicali con alcuni suggerimenti, di fatto geosinonimi già noti, e gli utenti, cui era richiesto di essere di madrelingua italiana, hanno risposto citando il luogo geografico pertinente alla parola segnalata ai ricercatori. Le risposte sono state riportate su carta con un segnaposto attivo per ciascuna località. A differenza degli atlanti tradizionali che, a seguito di studi sul territorio e sulle varietà dialettali note, pianificano e allestiscono la rete dei punti da sottoporre a inchiesta, nel caso dell’ALIQUOT la rete dei punti si costruisce a posteriori, sulla base delle dichiarazioni di chi decide di partecipare all’indagine. È altro dai rilevamenti condotti intervistando i parlanti, come nel caso della “Lingua delle città” (LinCi), che ha applicato un questionario di 200 domande, scelte come rappresentative della variazione lessicale e morfosintattica, in diverse città capoluogo. Anche in questa ricerca l’obiettivo era quello di attingere gli usi dell’italiano comune e corrente, suscettibili di variazione diatopica, diastratica e diafasica, e la partecipazione degli informatori scelti è stata collaborativa e all’insegna della condivisione delle proprie riflessioni sui quesiti loro rivolti.

I parlanti, di solito, si lasciano coinvolgere volentieri nei discorsi sulla lingua o sul dialetto e la risposta a una domanda non è sempre la sola offerta di una parola o di una frase, ma a volte anche di riflessioni su quella parola o su quella frase, spesso non sollecitate dal raccoglitore o non previste fra gli obiettivi dell’indagine. Così si recuperano opinioni, dubbi sulla correttezza o sul significato, dichiarazioni sulla localizzazione geografica o sull’appartenenza al dialetto oppure alla lingua, anche nei suoi diversi registri, sulla pertinenza dell’uso all’oggi o al passato più o meno recente. La curiosità, che tutti abbiamo per l’origine delle parole e delle espressioni, ha l’occasione di manifestarsi quando il parlante è interpellato dal raccoglitore che conduce l’inchiesta: quale migliore occasione per chiedere l’etimologia o la storia di una parola al linguista che si ha davanti, fino a sottoporgli una propria base etimologica per averne conferma? Questi commenti metalinguistici, punteggiano il dialogo fra il raccoglitore e la propria fonte quando l’interazione diviene “sciolta”, amichevole, fiduciosa. Affidare il proprio patrimonio culturale a chi si impegna a conservarlo, studiarlo e restituirlo alla comunità, apre a un valore immateriale aggiunto e del tutto individuale: non è raro, infatti, che l’informatore si soffermi su quella che è la “sua” storia della parola, sul “suo” ricordo d’affetto, di scoperta, sul legame con un pezzo del proprio vissuto.

Quello che si è detto, certamente in modo diverso, è accaduto anche con la partecipazione estiva alla proposta in rete e, in aggiunta, sono stati intrattenuti scambi fra i diversi utenti, come è consuetudine quando si usano questi media. Una temporanea comunità, legata dall’opportunità di testimoniare l’interesse per il dialetto o per il dialetto di “appartenenza”, ha aperto un dialogo tanto proficuo quanto interessante: proficuo perché ha prodotto, come reazione da parte degli utenti, un repertorio di parole dialettali; interessante perché ha offerto un panorama di reazioni, riflessioni, spiegazioni. Ha mostrato anche che sulla lingua si può prendere partito e discutere animatamente, ma, in generale, il confronto ha fatto risaltare quanto ancora ci dobbiamo dedicare alla divulgazione della storia linguistica del nostro territorio, soprattutto a proposito dei dialetti e del loro statuto e della loro storia.

Nel Tema dello scorso ottobre Nicola De Blasi ha fatto chiarezza su terminologia, definizioni e temi spesso ricorrenti: ad esempio, l’idea diffusa, ma non corretta, che esistano, sul nostro territorio nazionale, dialetti o lingue regionali. Dando per scontato che un lettore abituale del tema del mese abbia attinto sufficienti informazioni, o che un utente accorto possa ricorrervi per chiarimenti sulla posizione scientifica riguardo al dialetto, non ritorno sull’argomento e mi limito a riproporre una riflessione del collega accademico che condivido pienamente: «Anche per l’ambito dialettologico, infatti, la rete diffonde prospettive e convinzioni spesso incompatibili con quelle scientifiche del settore, ma sostenute e amplificate localmente nelle tante “bolle” mediatiche che caratterizzano questo tipo di comunicazione. Si registra insomma in internet la fortuna di una sorta di dialettologia parallela in apparenza destinata a non incontrarsi mai con le nozioni della Dialettologia italiana, poiché molte persone si informano esclusivamente attraverso la rete».

Anche i post all’iniziativa Un’estate tra le voci dialettali, danno conferma del fenomeno e alcuni utenti discutono di italiano standard, lingue e dialetti regionali, o semplicemente usano lingua nazionale, lingua siciliana, chiosano le loro risposte con dialetto e, in certi casi, provano a descriverlo confrontandolo con altri. Certamente, accanto alla necessità di esprimere la propria opinione, è evidente l’inclinazione di chi scrive a saperne di più.

Alla non frequente curiosità per l’origine delle parole ("voglio sapere l’etimologia di ganzo"; «verso Gorizia e Trieste dicono “mulo/a” [‘ragazzo/a’] sarei curiosa di capirne l’origine»), si affianca una costante attenzione alla resa grafica del dialetto con la constatazione, più o meno esplicita, che l’ortografia della lingua sia inadeguata, com’è vero, a rendere la pronuncia dialettale. Ecco, allora, che gli utenti, da nord a sud isole comprese, hanno bisogno di aggiungere precisazioni per sopperire a una carenza che mette in ombra la realtà fonetica dei dialetti. Per restituire i suoni vocalici che si possono rappresentare solo con la grafia fonetica un piemontese ricorre alla u francese per spiegare la u palatale arrotondata di busiard ‘bugiardo’ e un calabrese, dell’area di Crotone, dovendo gestire i suoni vocalici indistinti, resi in grafia fonetica con ǝ (schwa), scrive gàmmiru ‘gambero’ e segnala che la i è "quasi impercettibile". Anche la resa del consonantismo ha i suoi ostacoli: il digramma ci non soddisfa la pronuncia foggiana di si 'nu buciard, avvertita come una sci "leggera, cioè scempia"; infatti l’AIS trascrive in quest’area [sì bušyàrdǝ] con la resa fonetica della consonante e anche con la vocale finale indistinta, omessa dall’utente forse proprio perché avvertita evanescente. Anche in Toscana si sottolinea l’inadeguatezza del digramma gi per rappresentare l’indebolimento consonantico della palatale sonora: "Tu se' bugiardo, ma con una g talmente scivolata che ci potresti inciampare" (l’AIS trascrive infatti [bužàrdo]). E di “inciampi” ne possiamo segnalare diversi: l’ortografia italiana non distingue la s sorda da quella sonora e, all’occorrenza, si deve segnalare la pronuncia sonora; e poi come rendere farfala in veneziano, con la l intervocalica evanescente? farfaea, scrive un utente che, insoddisfatto, spiega che non si tratta proprio di una e.

Alla lunga storia dell’ortografia della lingua, e del suo consolidamento, dobbiamo affiancare la storia delle grafie dei dialetti, spesso ancora assai oscillanti nelle scelte, e la diversità luogo per luogo e in periodi storici differenti. Spesso il ricorso a una scrittura che rappresenti questa o quella dialettalità è determinata dalla necessità di esprimersi in dialetto, soprattutto in poesia, e di testimoniare e di fissare il dialetto in dizionari anche di taglio amatoriale. Spesso, dunque, tarda il raggiungimento di una convenzione grafica condivisa (pur presente per certi dialetti) e, comunque, non necessariamente si diffonde se non presso chi ha una esigenza non estemporanea. Dunque i nostri utenti ben rappresentano quegli italiani che occasionalmente si confrontano con la scrittura del dialetto, ne evidenziano le difficoltà e i limiti per rappresentare i suoni della lora esperienza dialettale che sono elementi distintivi e caratterizzanti.

Per concludere, è il caso di riprendere un argomento appena accennato poco sopra: la storia individuale delle parole, intendendo “individuale” nel suo valore etimologico, cioè di ogni singolo individuo, dunque strettamente personale. Ne abbiamo alcune vivaci testimonianze nei post, molti di noi ne hanno in serbo, basta scavare nella memoria, e linguisti e scrittori ci offrono la storia delle quelle parole cui sono ancorati i momenti significativi della loro autobiografia linguistica. Tullio De Mauro in Parole di giorni lontani (Bologna, Il Mulino, 2006) racconta l’incontro con parole ed espressioni di lingua e di dialetto, in bozzetti che sono racconti di vita, "memorie linguistiche soprattutto infantili". A seguire Parole di giorni un po’ meno lontani (Bologna, Il Mulino, 2012) che abbraccia il periodo della giovinezza, dal 1942 al 1952. Vent’anni prima, come sottolinea lo stesso De Mauro nella Premessa al volumetto del 2006, Giovanni Nencioni aveva pubblicato Autodiacronia linguistica: un caso personale (in La lingua in movimento, Firenze, Accademia della Crusca, 1982, pp. 7-33; poi nei "Quaderni dell’Atlante Lessicale Toscano" I, 1983, pp. 1-25; quindi in Id., La lingua dei Malavoglia e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli, Morano, 1988, pp. 99-132, riprodotto in rete all’indirizzo https://nencioni.sns.it/fileadmin/template/allegati/pubblicazioni/1988/Malavoglia/Malavoglia_4.pdf), straordinario e vivace spaccato di vita “linguistica”, ossia di lingua in movimento, scritto per narrare come flusso delle proprie "esperienze interiori […] portando allo scoperto il suo vissuto" (Francesco Sabatini, Lezioni di vita e insegnamenti profondi dai miei incontri con Giovanni Nencioni). Nello stesso anno usciva Cenni di autobiografia sociolinguistica di Giuseppe Francescato (in Scritti linguistici in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pisa, Pacini, 1983, pp. 237-250), cui è seguita, a una certa distanza di tempo, L’autobiografia linguistica in generale, e quella dell’autore in particolare, con un saggio di quest’ultima, di Lorenzo Renzi (in Monica Cini, Riccardo Regis [a cura di], Che cosa ne pensa oggi Chiaffredo Roux?, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002, pp. 329-339). Per quanto si tratti dell’autoanalisi di illustri linguisti, da accostare a quella, pur cifra diversa, di letterati (da Natalia Ginzburg di Lessico famigliare, Torino, Einaudi, 1863, a Luigi Meneghello di Libera nos a malo, Milano, Feltrinelli, 1963, all’ultimo Erri De Luca, A schiovere. Vocabolario napoletano di effetti personali, Milano, Feltrinelli, 2023), siamo sempre di fronte alla relazione sociolinguistica che il parlante instaura incontrando lingue e dialetti diversi durante il proprio vissuto, in particolar modo dell’infanzia.

La redazione dell’autobiografia linguistica da parte degli studenti è uno strumento didattico applicato per la prima volta all’inizio degli anni Ottanta da Tullio Telmon nei suoi corsi di Dialettologia italiana all’Università di Torino (Gli studenti si confessano: considerazioni sulle autobiografie sociolinguistiche, in Gianna Marcato [a cura di], Giovani, lingue e dialetti, Padova, Unipress, 2006, pp. 221-229), esteso ad altre università e poi ai corsi di insegnamento dell’italiano agli studenti stranieri. La narrazione della propria esperienza linguistica permette di attivare la consapevolezza di sé come parlante e di acquisire gli strumenti per una partecipazione attiva alla complessa realtà linguistica in cui si è immersi. Anche gli utenti  che hanno aderito all’iniziativa estiva dell’Accademia  hanno lasciato frammenti della loro autobiografia stimolati da questa o quella parola dialettale che non era solo una citazione, ma qualcosa di più che spesso ha riportato al ricordo di un vissuto con i nonni dialettofoni, a conoscenze o cambiamenti legati all’essersi trasferiti. Così per una toscana di area meridionale che ha "risciacquato i panni in Arno" perdendo un po’ del suo dialetto di origine, si affianca la dichiarazione di un certo sconcerto per un siciliano di area agrigentina che da bambino si trova in confusione fra addevu ‘bambino’ del suo paese e caruso del paese delle sue nonne: per lui il caruso è ‘salvadanaio’, per loro ‘bambino’, appunto. A proposito della carta AIS sedia, una utente sarda (non sappiamo la provenienza precisa) fornisce diverse parole, attribuite alla nonna, che designano tipi diversi di sedie. Forse le ricorda così bene perché i bambini le sedie non le potevano usare e sedevano "su una cadiredda (seggiolina) o sul tiddu (sgabellino basso di sughero). Mai una sedia seria insomma".


Annamaria Saviolo
19 gennaio 2024 - 00:00
io nata a Padova nel '45, appartengo a quell'epoca in cui si iniziava a parlare l'italiano in casa con bambini, e ne derivavano dei gran pasticci per i poveri insegnanti. Papà, grande Maestro elementare, in casa faceva parlare in dialetto, ma lo correggeva con rigore. Quando mio fratello, residente poi a Roma, si ammalò, fino alla fine con me mantenne il nostro dialetto, ogni suo sfogo, confidenza, erano nella nostra lingua, incuranti della presenza altrui. Ricordo con strazio, a occhi socchiusi e stanchi , mi redarguì capendo nel mio silenzio, la mia disapprovazione verso un altro paziente "assa stare, el xè un poerasso". Sorridendo, ieri mi è capitato di notare, cucinando, la differenza fra "un fiatin" e "na schanta". Grazie Papà"!

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