Il presidente dell'Accademia Claudio Marazzini invita ancora, attraverso una lettera aperta indirizzata al ministro dell'Università e della ricerca, a riflettere sulla politica linguistica adottata dalle istituzioni italiane.
Gennaio 2021
“Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella,
credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua.
E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana;
ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto”
(Dante, Convivio, I, XI)
Il 4 novembre 2020, dopo che era stato diffuso il nuovo bando PRIN, cioè il bando per i Progetti di ricerca di interesse nazionale rivolto ai nostri atenei, ho mandato, a nome dell’Accademia della Crusca, questa lettera al Signor Ministro dell’Università, prof. Gaetano Manfredi:
Onorevole Signor Ministro Manfredi,
con grande rammarico ho constatato che la domanda per rispondere al bando dei finanziamenti PRIN 2020 da poco pubblicato prevede (art. 5 comma 2) un testo ufficiale redatto solo in lingua inglese, mentre la versione italiana, definita “ulteriore”, è considerata accessoria, da allegare a scelta del proponente. Mi sembra evidente che in tal modo le due lingue non sono poste su di un piano di parità, e anzi l’italiano risulta visibilmente svilito.
Mi permetto di ricordarLe la ‘storia linguistica’ delle domande PRIN. Fino al 1997 la domanda fu sempre redatta in italiano. Dal 1998 (Ministro Berlinguer) le domande furono richieste in italiano e in inglese, con la motivazione di estendere in questo modo il numero dei valutatori internazionali. Nel 2012 (Ministro Profumo), la domanda fu ancora richiesta in due lingue, italiano e inglese, poste su di un piano di parità. Nel 2015 (Ministra Giannini), la domanda fu in italiano o in inglese, ma “a scelta del proponente” (art. 4, comma 2). Nel 2017 (Ministra Fedeli), la domanda fu imposta solo in inglese, con un’eventuale versione ancillare in italiano, secondo la medesima formulazione che si ritrova nel bando 2020 ora emanato sotto il Suo Ministero.
Nel dicembre 2017 e poi nel 2018, ci fu una reazione contro la domanda ufficiale del PRIN 2017 richiesta obbligatoriamente e solo in inglese. La polemica fu avviata da un articolo del Sole 24 ore, a cui seguì un intervento dell’Accademia della Crusca (che si legge ancora, ricorrendo a questo collegamento: https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/il-miur-d-un-calcio-all-taliano/7420 ). Ci fu una risposta della Ministra Fedeli, che si legge mediante un altro collegamento posto nella stessa pagina web dell’Accademia. Si aprì un vivace dibattito, che ebbe un seguito anche in alcune pagine di un mio libro (cfr. C.M., L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, Milano, Rizzoli, 2018, pp. 74-98).
Non ripeterò qui gli argomenti emersi in quel dibattito. Mi limiterò a chiederLe per quale ragione non sia possibile porre le due lingue allo stesso livello, richiedendo le domande sia in italiano sia in inglese. Se la giustificazione dell’inglese sta nella necessità di una valutazione internazionale, è evidente che alcune discipline non possono avere valutatori che non conoscano l’italiano (si pensi alla letteratura italiana, alla linguistica italiana, al diritto italiano). Per queste discipline, la redazione in inglese potrebbe non essere indispensabile, come del resto potrebbe non esserlo quella in italiano in altri ambiti disciplinari. Tuttavia, tenendo conto che l’inglese è la lingua della comunicazione scientifica internazionale e che l'italiano è la lingua ufficiale della nazione, è opportuno che l'uso di entrambe le lingue sia richiesto a tutti, anche a coloro che non usano o non vogliono usare l’italiano nelle loro ricerche scientifiche. Ciò li aiuterà a non dimenticare in quale paese vivono, e aiuterà tutti noi a tener vivo anche l’italiano tecnico-scientifico.
Le sarò grato, Signor Ministro, se vorrà riflettere sul problema, in considerazione di questo e di altri bandi PRIN.
Mi creda suo
C.M.
La lettera fino ad oggi non ha avuto risposta. So che alcune istituzioni culturali hanno a loro volta scritto al Ministro lettere analoghe. Non so se questi sforzi abbiano raggiunto lo scopo più profondo che ci animava: non tanto smuovere la burocrazia per uno specifico atto, ma sollecitare la riflessione su di un tema di grande importanza per la sopravvivenza della lingua italiana come strumento di elevata cultura, collegato all’uso dell’italiano negli atenei, argomento su cui si è discusso tempo fa, coinvolgendo il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale. Nel 2017 l’identica questione ebbe come esito una vivace polemica, che allora si avviò proprio in questa medesima rubrica, favorita da un titolo impressivo che attirò l’attenzione della stampa: “Il MIUR dà un calcio all’italiano”.
Avrei potuto adottare oggi un titolo corrispondente, ad esempio “Il MIUR dà un altro calcio all’italiano”. Non l’ho fatto, così come non ho voluto rendere subito pubblica la mia lettera al Ministro Manfredi. Non ho voluto sollevare polemiche in un momento difficile per la vita del paese e per la stessa organizzazione della ricerca e della didattica universitaria, duramente messa alla prova dalla covid-19. Ora, però, siamo giunti a ridosso della data di scadenza delle domande del PRIN. Pur mettendo in atto ogni sforzo per comprendere le ragioni avverse, continuo a non capire perché le due lingue, l’italiano nazionale e l’inglese internazionale, non possano convivere pacificamente, presentandosi in casi come questi abbinate, con pari diritti. Perché una lingua deve scalzare l’altra? Se a un italianista, o a uno studioso di diritto italiano, viene richiesto di stilare la propria domanda in inglese, benché sia chiaro che la sua ricerca non potrà mai essere giudicata e compresa da chi non intenda l’italiano, perché uno sforzo analogo non dovrebbe essere richiesto a chi, per converso, ritenga di dover essere valutato solo da chi legga la sua domanda redatta in inglese, nella certezza (quanto legittima?) che mai lo capirà chi legge il nostro idioma del sì? Tutti gli studiosi devono accettare lo sforzo di farsi intendere dalla comunità scientifica di riferimento, ma al tempo stesso tutti dovrebbero maturare il massimo rispetto della loro lingua nazionale, per quanto questo possa costare loro un po’ di fatica, favorendo comunque lo sforzo del tradurre, che è sempre un modo per riflettere vantaggiosamente su significati e contenuti, come ci insegnava Umberto Eco. Dico questo sapendo che già oggi alcuni membri della nostra comunità accademica appoggiano la soluzione adottata dal MIUR, sostenendo, quasi con vanto, di non essere in grado di discorrere in italiano della loro scienza. Proprio in questa affermazione sta il pericolo più grave: una lingua che non venga usata per la scienza, che anzi ne sia reputata contenitore impossibile, decade rapidamente al rango di dialetto. L’italiano non merita questa fine, e il MIUR non dovrebbe avere interesse a favorire una decadenza del genere.
Un confronto su questo delicato tema, sollecitato, spero, dalla pubblicazione di questo mio intervento, servirebbe a pesare le ragioni a confronto di chi, come me, difende l’italiano, e di chi ostinatamente, per la seconda volta, ha preferito abolirlo, pur ammettendo, debole e umiliante vicolo d’uscita, un eventuale testo italiano facoltativo (a beneficio non si sa di chi…).
L’italiano non merita di essere tollerato in nome di una concessione benevola. Semmai dovrebbe diventare obbligatorio anche per coloro che altezzosamente ritengono di poterne fare a meno. Tutti accettiamo di scrivere il testo inglese per favorire il confronto internazionale e per estendere la rosa dei possibili valutatori. Dunque tutti accettino anche di rendere pubblico il loro testo nella lingua ufficiale della nazione, perché possa essere letto da qualunque cittadino italiano desideri farlo, in ossequio a un principio di trasparenza nell’uso di pubbliche risorse. Questa è vera parità linguistica, senza la quale la nostra lingua riceve un danno, proprio nell’anno di Dante.
Aggiornamento del 12 gennaio 2021:
Il 10 gennaio, dopo la pubblicazione della mia lettera nel sito della Crusca, è giunta una prima risposta del Ministro Manfredi, seppure in forma indiretta, nel corso di un'intervista concessa a "la Repubblica" (p. 4 dell'edizione di Napoli). L'intervista prende le mosse dalle argomentazioni dello scienziato Andrea Ballabio, che ha criticato la distribuzione dei finanziamenti ministeriali per la ricerca, i quali avverrebbero aggirando le norme e facendosi beffe della meritocrazia.
Riproduciamo qui una parte dell'articolo, quella in cui ricorre la menzione dell'Accademia della Crusca:
Premettiamo che la divisione dei finanziamenti PRIN non è problema in cui l'Accademia della Crusca sia intervenuta o abbia intenzione di intervenire in qualunque modo, essendo questione estranea alle nostre competenze istituzionali. La risposta del Ministro mostra tuttavia un totale fraintendimento degli argomenti linguistici di nostra specifica competenza:
Paolo Di Stefano parla dell'intervento di Marazzini sulle pagine del "Corriere della Sera":
Interviene sul tema anche il giurista Luigi Labruna sulla rubrica personale "Refole", citando il Tema di Marazzini e sottolineando le difficoltà dell'equiparazione dei criteri e strumenti valutativi per discipline umanistiche e scienze dure, e i rischi legati all'adozione indiscriminata dell'inglese come lingua primaria di scrittura dei PRIN.
Sul sito "ROARS - Return on Academic Research and School", Nuccio Ordine cita la mobilitazione della Crusca sulla questione della ricerca in italiano e la lettera aperta del presidente Marazzini al ministro Manfredi:
Segnaliamo anche l'intervento del filosofo Fabio Minazzi, che sul quotidiano "La Prealpina" riflette sul problema della marginalizzazione dell'italiano nella ricerca universitaria, citando il Tema di Marazzini:
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
Riprendiamo il tema del dialetto, già affrontato in altri temi del mese, trattando questa volta della sua recente ripresa nei media e in particolare nella televisione.
Evento di Crusca
Collaborazione di Crusca
Evento esterno
Per concomitanza con le Feste, la visita all'Accademia della Crusca dell'ultima domenica del mese di dicembre è stata spostata al 12 gennaio 2025 (ore 11).
Commento di chiusura di Claudio Marazzini:
Diversi giornali (si vedano i collegamenti posti in coda al mio intervento) hanno ripreso il Tema, ribadendo le posizioni critiche nei confronti di un provvedimento ministeriale indifendibile. Dico indifendibile, perché l’unico che ha provato a difenderlo, per quanto ne so, è stato Antonio Gurrado sul “Foglio” del 14 gennaio (https://www.ilfoglio.it/bandiera-bianca/2021/01/14/news/usare-l-inglese-e-il-miglior-contrappeso-all-italiano-astratto-delle-universita—1682948/). Devo dire che Gurrado, bontà sua, se l’è presa più con il bravo Paolo Di Stefano del “Corriere della Sera” che con la Crusca e il suo presidente. Vedete se vi convincono le sue tesi:
"È vero [quello che dice Marazzini, sul rischio di impoverimento dell’italiano]; ma è vero anche che l’inglese è un grande setaccio. Non ricordo chi proponesse di disfarci delle contraddizioni e delle ambiguità della legislazione italiana traducendola integralmente in inglese: fate quest’esercizio, non dico anglicizzare i passi dei Dpcm che parlano di “congiunti” o di “rime buccali” ma già solo l’articolo 1 della Costituzione. Vedrete che, dopo aver vanamente girato le parole fra le mani, deciderete di far cadere quelle che esprimono concetti oscuri o astrusi (“a democratic republic based on work”) accorgendovi che, alla fine, sono superflue."
Ripuliamo dunque la Costituzione secondo questo suggerimento, che passiamo senza commenti al giudizio del nuovo presidente della Suprema Corte, il magistrato Giancarlo Coraggio. Gurrado prosegue:
"Un problema della ricerca in Italia è che - mentre nel mondo anglosassone prima viene definito un progetto e poi si cerca il finanziamento adatto - qui sovente si cerca di mettere insieme progetti ad hoc per rispondere a bandi per finanziamenti, quindi non di rado (specie nel settore umanistico) si fa leva su giri di parole che vogliono dire tutto e niente, per tenersi sul vago e sperare in bene. In inglese non si può, o quanto meno è molto più difficile, e i rischi che il trucchetto venga scoperto sono molto più elevati. Infine, e soprattutto, per redigere un articolato e ambizioso progetto di ricerca in inglese è necessario sapere l’inglese. Sarebbe già qualcosa."
Finalmente grazie a Gurrado (nel silenzio del Ministro) abbiamo capito perché è stato reso obbligatorio l’inglese delle domande PRIN. C’è però un particolare che a Gurrado è sfuggito: l’inglese è obbligatorio nelle domande PRIN fin dal 1998, con la sola l’interruzione del PRIN 2015 (Ministra Giannini). E allora come mai questa lingua salvifica, in uso obbligatorio già da 23 anni per le domande PRIN, non ha risolto i problemi etici individuati da Gurrado? Forse perché accanto ad essa c’era rimasto un residuale testo italiano, almeno fino al bando 2017 di Valeria Fedeli, quando finalmente fu rimosso? Se è così, però, dobbiamo constatare che nemmeno abolendo l’italiano, come già si è fatto nel 2017, i problemi etici sono stati superati. Tutto il presunto malcostume descritto da Gurrado è riuscito a sopravvivere perfettamente calandosi nei testi inglesi presentati dagli italiani candidati al PRIN. Allora, facendo i conti con il passato e rispettando l’intuizione di Gurrado, potremmo immaginare una soluzione diversa: cioè che il confronto tra i due testi, quello salvifico in inglese e quello traditore e verboso nella lingua nazionale, potrebbe essere utile per smascherare gli ingannatori che diguazzano nella vaga ed equivoca natura della lingua italiana. Però, per questo, ci vogliono due testi, uno inglese, ma anche uno italiano. Dunque anche Gurrado, alla fin fine, potrebbe forse trovarsi al mio fianco, magari paladino della reintroduzione dell’italiano obbligatorio.
Tornando seri: con quale dose di qualunquismo si possono metter sotto accusa in questo modo i docenti che lavorano nei nostri atenei? Con quale sensibilità si può attribuire alla lingua difetti che con la lingua nulla hanno che fare? Come non capire che non solo il confronto con l’inglese, ma qualunque esperimento di traduzione, con qualunque lingua, è sempre un banco di prova per verificare la forza e coerenza dei contenuti di un testo? Ma lasciamoci alle spalle un dibattito scalcinato che semmai ha mostrato la piena validità delle tesi espresse nel mio Tema del mese.
Di fronte a un problema di tale gravità (perché le spiritose invenzioni di Gurrado mica sono solo sue: c’è un sacco di gente che le condivide, ahimè, con analoga profondità di ragionamento), alcuni tra i nostri “sostenitori” scambiano la questione fondamentale, la sopravvivenza dell’italiano come lingua di cultura universitaria, con le sorti di un forestierismo: il lockdown. Quel forestierismo è antipatico anche a me, ma non è certo la causa dei nostri mali. È semplicemente un sintomo del comportamento degli italiani, i quali, con un vezzo di anglofilia per loro non inconsueto, hanno voluto ben distinguersi dai francesi e dagli spagnoli che dell’anglismo non hanno avuto bisogno. Spagnoli e francesi, per parte loro, si sono accontentati di parole locali come confinamiento, e confinement. Ma si sa: gli italiani sono internazionali. O forse gli italiani hanno fatto tesoro delle idee di Gurrado, e hanno capito che lockdown, come tutte le parole inglesi, porta in sé una ventata di illuminante chiarezza, mentre una parola italiana come “confinamento” avrebbe prodotto un effetto di verbosità traditrice, più o meno come è capitato ai “congiunti” e alle “rime buccali” del DPCM, che non sono frutto di un maldestro modo di scrivere, ma sono un inevitabile effetto della lingua italiana, di per sé perversa, come dimostra la Costituzione con la “repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Molti tra coloro che parteggiano per l’emarginazione dell’italiano dai luoghi che contano, molti avversari dell’italiano a cui dedico volentieri le parole di Dante nel Convivio I, 11 (e non solo quelle che ho messo in esergo, ma anche le altre ben più dure che ho omesso), sono pur disposti a condurre una battaglia contro parole inglesi che attentano all’ecologia della nostra lingua. Io sono tra i fondatori di Incipit e milito nella squadra, ma vi garantisco che la battaglia per l’italiano nel PRIN è più importante. Per questo, nel ringraziare tutti i lettori che si sono dimostrati solidali, sottolineo in modo speciale l’importanza dell’adesione del fisico Enzo De Sanctis, intervenuto il 6 gennaio. Abbiamo bisogno di scienziati che, come lui, facciano pesare il loro autorevole parere.
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