Il presidente dell'Accademia Claudio Marazzini, rispondendo a un articolo di Mattia Feltri, invita alla riflessione e al dibattito sul tema dei forestierismi.
Luglio 2018
Sulla prima pagina del quotidiano di Torino, “La Stampa”, 14 luglio 2018, nella rubrica “Buongiorno”, Mattia Feltri prende in considerazione le battaglie dell’Accademia della Crusca per la difesa della lingua da “provincialismi internazionalisti” (bell’ossimoro), “ibridazioni digitali”, e anche banali anglismi. Si sa: nella varietà delle questioni di lingua, i giornalisti sembrano soggiogati da quest’unico tema: il forestierismo, soprattutto nella versione social e digitale. Feltri, però, pare un po’ indispettito perché ha visto criticare l’uso sconsiderato di certi anglismi che gli paiono belli, popolari e funzionali, come hot spot e road map.
Certo ogni opinione è lecita, ma sull’opportunità di hot spot per indicare i centri di accoglienza e identificazione dei migranti conservo qualche perplessità. Continuo a pensare che Incipit (un istituto da non identificare sic et simpliciter con la Crusca) abbia fatto bene a proporne la sostituzione, così come per bail in, stepchild adoption, home restaurant, whistleblower, voluntary disclosure, e via dicendo (si rileggano i 10 comunicati di Incipit). Molti anglismi della politica italiana altro non sono che il latinorum degli Azzeccagarbugli del nuovo millennio. Perché le leggi dello Stato dovrebbero essere disseminate di parole inglesi oscure? E perché i giornalisti non parlano della politica linguistica del nostro Paese, o delle questioni che stanno dietro all’uso bellettristico e modaiolo degli anglismi più truffaldini?
Temo che abbia ragione Feltri quando sentenzia che non sarà la Crusca a convincere i giovani ad abbandonare spoilerare e slot. Mi dispiace per quei giovani. Penso che la più antica Accademia linguistica d’Europa, istituzione che ha oggi il compito di tutelare e promuovere la lingua italiana, non possa comunque rinunciare a dare qualche consiglio, di fronte all’uso sconsiderato degli anglismi inutili, e debba anzi impegnarsi per trasmettere agli italiani un maggior amore per la lingua nazionale (o “ufficiale”, visto che l’italiano è “nazionale” solo in Svizzera, stando alle Costituzioni).
Il miracoloso slot di quattro lettere, citato da Feltri come esempio mirabile di parola “praticissima e intraducibile”, fa forse gola nei tempi frenetici del mondo globalizzato e ludopatico, o piace a chi coltiva testi brevi, come la rubrica “Buongiorno”, in cui ci sono oggettivi limiti di spazio; ma, mi si permetta, non è un esempio di parola chiara, né bella, né preziosa: in italiano la usiamo al posto di “slot machine” (e sarebbe meglio non avere né la parola né l’oggetto), ma slot ha poi un diverso significato nell’aeronautica, nell’elettronica, nei giochi di ruolo. Significa molte cose, anche troppe, almeno per noi italiani, mentre per gli inglesi è semplicemente una banalissima “fessura”, con l’estensione ad alcuni usi metaforici. Ecco la parola “intraducibile”! L’intraducibilità è soprattutto il frutto di pigrizia mentale e conformismo.
Sembra incredibile che di fronte alla polisemia di slot qualcuno sia travolto dall’illusione che con qualche centinaio di parole del genere si risolvano problemi linguistici, si superi il presunto impaccio di una lingua antica che risale al tempo di Dante (ma ora apprendiamo da Feltri che la Crusca avrebbe voluto impalare Dante: non lo sapevamo, pur avendo studiato a lungo la questione della lingua). C’è dunque chi crede che grazie alla diffusione di slot et similia gli italiani, finalmente, possano salire al livello di Finlandia e Giappone nel delicato campo della “literacy” (così ci capiremo meglio, visto che è parola più breve di “alfabetizzazione”). Finlandia e Giappone, vi rammento, sono in testa nel rapporto PIAAC 2013, quello stesso rapporto in cui gli italiani sono in coda, perché conoscono la lingua nazionale peggio di tutti.
Nel libro L’italiano è meraviglioso, che a Feltri pare il prodotto di un “analfabeta paradossale”, ho cercato di ridicolizzare ed estirpare un po’ di parole inglesi inutili; allo stesso tempo, ne ho ammesse molte, ma soprattutto ho puntato il dito contro il provincialismo di quanti sopravvalutano la funzione dell’inglese, che pure è una lingua preziosa, ma non deve mettere nell’angolo l’italiano. Del resto ricordo bene (anche se nel mio libro non l’ho citato) che Feltri è tra coloro che hanno gridato alla scandalo di fronte alla sentenza del Consiglio di Stato su italiano e inglese al Politecnico di Milano. È provinciale sbandierare paroline inglesi credendo così di essere colti e internazionali. Peggio ancora, tuttavia, è cercare di eliminare l’italiano dai livelli avanzati di istruzione. Noi vogliamo formare cittadini competenti e capaci di interagire in contesti plurilingui, capaci di apprezzare la lingua della nazione in cui abitano. Ci si può beare perché aumenta l’uso di anglismi, talvolta senza necessità e in modo inappropriato? Si può dire che chi solleva dubbi su questo pigro conformismo è un analfabeta? Altro che “Buongiorno”! Io direi “Buonanotte”.
Alleghiamo al Tema di Claudio Marazzini l'articolo di Lorenzo Tomasin pubblicato sul "Corriere del Ticino" del 26 luglio 2018:
L'Accademico Mirko Tavoni affronta il tema dell'insegnamento della grammatica a scuola e del suo rapporto con le effettive competenze linguistiche e metalinguistiche degli italiani.
L'Accademico Vittorio Coletti invita a riflettere e discutere su due tendenze dell'italiano contemporaneo.
La vicepresidente Rita Librandi fa il punto sul tema dei neologismi.
Il Consiglio direttivo dell'Accademia (Paolo D'Achille, Rita Librandi, Annalisa Nesi, Federigo Bambi, Rosario Coluccia), riprendendo la questione del genere nella lingua, più volte e sotto vari aspetti affrontata dalla Crusca, propone come Tema di discussione una riflessione e alcune indicazioni per un uso non discriminatorio della lingua.
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Intervento conclusivo di Claudio Marazzini
Chiudo con una certa fretta il Tema del mese, perché è durato anche troppo. Siamo fuori tempo massimo. Il prossimo Tema (nuovamente scritto da me, come presto vedrete) sfiorerà del resto argomenti analoghi. La discussione, che si è sviluppata al seguito della mia polemica rivolta contro Mattia Feltri, mi è sembrata molto interessante e civile, anche per le forme di comunicazione adottate da chi non era d’accordo con le mie tesi. Mattia Feltri, rivolgendomi l’accusa di analfabetismo, per contro, si è avvicinato abbastanza bene allo stile dei “social”, quegli stessi “social” che fanno tanta paura ai giornalisti, quando temono che la carta stampata sia spazzata via e la loro professione affidata al primo che passa. Quanti continueranno a contendersi il posto sulla barchetta della modernità, di cui spesso l’anglomania più o meno esibita è la vela maestra? Non parliamo di quelli che si sentono padroni felici di una lingua presunta moderna, e, tutte le volte che intercettano una parola che evoca la cultura, o il passato, o l’eredità classica, accusano gli altri di essere portatori di vecchiume. A costoro si deve rispondere che la lingua non ha una sola dimensione. La lingua esiste nella varietà delle generazioni, dei sessi, delle situazioni, dei contesti, dei livelli di cultura. Dimentichiamo l’offesa lanciata da Feltri nei miei confronti e torniamo alla questione che ha appassionato il pubblico: gli anglismi. L’ho già scritto a chiare lettere nel mio libro uscito pochi mesi fa presso Rizzoli: ci sono anglismi assolutamente necessari, ci sono anglicismi giocosi e familiari (spoilerare può essere uno di questi, ha ragione chi l’ha difeso, tanto più che ha l’uscita italiana in ‑are: purché qualche parlante povero, di quelli con un bagaglio di 2000 parole, non lo scambi per un termine della critica cinematografica o letteraria “moderna”, o della teoria della comunicazione, e lo usi nella prova finale dell’esame di stato). Tuttavia dobbiamo ribadire che ci sono anglismi assolutamente cretini, che segnalano bene l’estensione della mente di chi li usa. Sono come fanali avvisatori. Hanno ragione i linguisti quando dicono che il parlante, adoperando un forestierismo, anche se inutile, mostra di sentirne l’esigenza, e dunque è davvero in stato di necessità. Il fatto è, però, che non tutte le necessità hanno pari dignità, e non tutti i parlanti sono uguali. Nessuno conduca dunque una guerra senza quartiere agli anglismi, ma si tenga distinta la varietà delle situazioni. Ci sono tante forme diverse di forestierismi: il prestito integrale, il prestito adattato, il calco, la traduzione, la perifrasi... Si tratta di un contesto comunicativo complesso, che fa parte della storia di qualunque lingua nel rapporto con le altre. Meditare sulle equivalenze, fa crescere il livello di consapevolezza. Semplificare non serve. Esaltarsi dei prestiti in quanto tali, farsi travolgere dalla gioia per qualunque contatto e a qualunque costo, mi pare puerile. Insomma, il discorso continua nel prossimo Tema del mese, tra pochissimo. Arrivederci.
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