Nuove leggi sull'italiano. Ma sono davvero "politica linguistica"?

di Claudio Marazzini

Il presidente dell'Accademia invita a riflettere e confrontarsi sul tema della presenza, dell'uso e del ruolo dell'italiano nella Costituzione, nell'Università e nella scuola.


1. Due proposte di legge, una ordinaria, una costituzionale

Nelle ultime settimane si è molto discusso di due interventi di natura legislativa riguardanti lo status e l'uso della nostra lingua.
La prima proposta, presentata qualche mese fa, il 23 dicembre 2022, contiene otto articoli di Disposizioni per la tutela e la promozione della lingua italiana e istituzione di un Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana. Porta il n. 734 negli Atti parlamentari della Camera dei deputati.
La seconda proposta, assegnata con il n. 337 degli Atti del Senato il 27 dicembre 2022 alla Commissione Affari costituzionali (presentata il 16 novembre), ha lo scopo di introdurre una modifica in Costituzione, introducendovi la menzione esplicita della lingua italiana. Una proposta del genere era stata avanzata anche in passato, per esempio nel 2002 (la formula era allora la seguente: "La lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica"); ora viene modificata e arricchita con una precisazione ispirata all'attuale Costituzione spagnola: "L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti i cittadini hanno il dovere di conoscerlo e il diritto di usarlo". L'inserimento dell'italiano in Costituzione dovrebbe avvenire nell'art. 12, quello in cui è menzionata la bandiera tricolore. La lingua viene dunque collocata tra i "simboli" della Repubblica (l'inserimento, in teoria, potrebbe stare anche altrove, per esempio nell'articolo 6 o nel 9, dove si parla rispettivamente di lingue minoritarie e di beni culturali).

Anche la proposta n. 734 di legge ordinaria, all'art. 1, comma 1, contiene l'affermazione secondo la quale "La lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica, che ne promuove l'apprendimento, la diffusione e la valorizzazione nel rispetto della tutela delle minoranze linguistiche ai sensi dell'articolo 6 della Costituzione e della legge 15 dicembre 1999, n. 482". Sarà bene ricordare che la legge 482/1999, in vigore, già stabilisce che "1. La lingua ufficiale della Repubblica è l'italiano. 2. La Repubblica, che valorizza il patrimonio linguistico e culturale della lingua italiana, promuove altresì la valorizzazione delle lingue e delle culture tutelate dalla presente legge". Possiamo aggiungere che la Corte costituzionale ha più volte esplicitato la natura di lingua ufficiale dell'italiano, ricavando in maniera raffinata questo principio da altre fonti, ma definendo comunque la sua indiscutibile "primazia"[1]. Attorno all'italiano in Costituzione, dunque, si sta creando un certo affollamento legislativo. Non a caso, i media se ne sono occupati negli ultimi tempi a più riprese. 

2. L'italiano in Costituzione 

Per quanto concerne l'inserimento dell'italiano in Costituzione, l'Accademia della Crusca ha espresso in passato il proprio parere favorevole, pur con qualche personale riserva di principio del presidente Marazzini per la troppa facilità con cui si tende oggi a intervenire sul testo costituzionale su disparate materie, non sempre con risultati brillanti.

Nel 1998 la proposta dell'italiano in Costituzione fu formulata da Giovanni Nencioni. Nel 2006, una delegazione composta da Francesco Sabatini (Presidente dell'Accademia), Nicoletta Maraschio (Vicepresidente) e Vittorio Coletti (accademico) si recò a Roma per un'audizione presso la Commissione Affari costituzionali della Camera, e illustrò la posizione della Crusca, dichiarando che la menzione dell'italiano come lingua ufficiale della Repubblica "è un gesto opportuno e auspicabile, perché riconosce e sintetizza una realtà di fatto secolare, voluta e condivisa da tutte le aree culturali del nostro Paese"[2]. Non si può non confermare quanto allora espresso, nonostante si siano udite autorevoli opinioni risolutamente contrarie, come quella di Sabino Cassese[3]. Partecipando alle recenti discussioni sul tema, ho fatto osservare che i vari modelli di costituzione dei paesi d'Europa, nei casi in cui menzionano la lingua, offrono diverse formulazioni. Prima di tutto, si distingue tra la dichiarazione di lingua "ufficiale" e lingua "nazionale". L'indicazione di lingua "nazionale" ricorre raramente: solo la Confederazione Elvetica ammette l'italiano come lingua allo stesso tempo ufficiale e nazionale (non da sola, ma assieme ad altre lingue). La qualifica di "nazionale" non si ritrova nelle proposte italiane, nelle più remote, ma nemmeno nelle più recenti: probabilmente la qualifica di nazionale è temuta ed evitata, anche se la Svizzera non sembra turbata dalla portata semantica dall'aggettivo.

Anche in Francia la lingua è menzionata nella Costituzione: la Francia ha inserito il riferimento ("La langue de la République est le français") nel 1992, in vista della ratifica del trattato di Maastricht, quando i rapporti con l'Europa si andavano facendo più stretti e più forte era il timore di un eccesso di predominio dell'inglese.

Nella costituzione di Spagna si trova l'articolo a cui ci si è ispirati nella proposta italiana n. 337. La formulazione è legata al rapporto con le forti minoranze linguistiche, in particolare quella catalana, di cui in Italia non esiste equivalente (i problemi delle minoranze linguistiche italiane sono stati risolti bene da tempo, specialmente in Valle d'Aosta e in Alto Adige). Francia e Spagna, comunque, hanno scelto formulazioni che potremmo definire "difensive", oltre che simboliche: la lingua sta come simbolo accanto alla bandiera nazionale. Per questo mi sono chiesto se non sarebbe una buona idea ispirarsi al diverso stile della Costituzione del Portogallo, che non menziona il portoghese solo tra i simboli della patria (art. 11.3: 3. "A língua oficial é o Português"), ma, con mossa originale, lo colloca tra gli scopi e obiettivi della nazione, all'art. 9: lo Stato, infatti, deve garantire valori come l'indipendenza, i diritti fondamentali, la democrazia, la qualità della vita, l'uguaglianza tra uomo e donna, la qualità dell'ambiente, e (ecco il punto) deve anche "Assegurar o ensino e a valorização permanente, defender o uso e promover a difusão internacional da língua portuguesa" (art. 9 lettera f). In qualche misura, la formulazione ricorda la proposta 734 di legge ordinaria sopra menzionata, ma non la 337 costituzionale.

Mi pare evidente che le proposte 734 di legge ordinaria e 337 di modifica costituzionale avrebbero potuto e potrebbero essere armonizzate molto meglio tra loro, anche in considerazione del fatto che provengono da una medesima parte politica, per cui il confronto dovrebbe essere più facile. 

3. Perplessità interpretative e spirito sanzionatorio 

La proposta 734 ha suscitato maggiori polemiche della proposta 337. La reazione è stata forte soprattutto di fronte alle sanzioni pecuniarie previste nei casi di violazione. Le polemiche giornalistiche hanno fatto trascurare elementi interessanti e piuttosto nuovi, pur presenti nella legge, come la questione dei contratti di lavoro in lingua italiana (art. 5), che meriterebbe di essere esaminata da esperti di diritto del lavoro, ma che a prima vista a me pare legittima e auspicabile. In un clima di globalizzazione e di forte presenza di multinazionali operanti in Italia, infatti, il vincolo del contratto di lavoro comunque redatto anche in italiano potrebbe essere una garanzia da non trascurare. Prima ancora di una sanzione economica, nei casi di violazione si potrebbe pensare alla semplice nullità dell'atto, certamente efficace. Ma non si è discusso di questo, come ho detto, perché l'attenzione si è concentrata sul preambolo alla proposta di legge 734, scritto in maniera scarsamente coerente rispetto al contenuto degli otto articoli, tale da far pensare soprattutto a una lotta contro singoli forestierismi introdotti nella lingua, e tale da attirare troppo l'attenzione sulle sanzioni legate al loro impiego. Molte perplessità ha suscitato l'art. 4, là dove vieta l'uso di sigle e denominazioni in lingua straniera salvo il caso di "assenza di un corrispettivo in lingua italiana". Questa scappatoia si presenta come particolarmente insidiosa, perché è difficile stabile se e quando l'equivalenza tra lingue diverse sia soddisfacente, e quale sia questa equivalenza nei casi dubbi, che rischiano di essere molti. Una formulazione così vaga lascia spazio a un imbarazzante contenzioso.

Molto ci sarebbe poi da discutere sulle funzioni assegnate a un organo previsto dalla proposta di legge, un organismo peraltro privo di compensi per i suoi membri, e privo persino di rimborsi spese: mi riferisco al Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana. Credo che dietro la proposta 734 ci sia il fantasma del Consiglio superiore della lingua italiana, proposto al tempo del governo Berlusconi, e il ricordo (o la semplice imitazione) della legge Toubon francese del 1994. 

4. La partita vera si gioca nelle università 

Mi pare legittimo chiedersi se le proposte di legge sopra menzionate e attualmente in fase di discussione siano segno di una rinnovata scelta di politica linguistica attiva, o siano semplicemente un modo per richiamare l'attenzione, suscitando polemiche destinate a far parlare molto senza davvero incidere sulla realtà, magari dando spazio ad avversari politici pronti a dar luogo a uno scontro puramente ideologico sull'abuso di inglese visto come di per sé progressista da chi non si riconosce nel governo in carica (si sono già manifestati i primi segnali di questa deviazione patologica). Questa sarebbe una paradossale iattura, perché l'interesse per la lingua italiana dovrebbe accomunare tutti, al di là delle diverse visioni politiche.

Sarebbe necessario distinguere nettamente l'introduzione di termini inglesi nell'uso comune quotidiano dei parlanti dall'abuso di inglese nella comunicazione sociale pubblica delle istituzioni statali (a cui sarebbe stato meglio limitare l'intervento). Soprattutto occorrerebbe essere molto attenti a un fenomeno che non sembra essere stato colto con chiarezza dal legislatore: vanno combattuti senza tentennamenti i casi, non rari, di emarginazione totale della lingua italiana, specialmente quando essa viene rimossa dall'alto, ad opera di italiani, e in Italia, non all'estero o ad opera di stranieri (gli italiani sono molto bravi nel farsi male da soli). Purtroppo gli esempi più evidenti di emarginazione totale e autoritaria dell'italiano si sono verificati e si verificano in un settore di primaria importanza e di grande peso qual è l'ambito universitario.

Occorre individuare con preciso discernimento i diversi livelli e ambiti di discriminazione della nostra lingua. Ne identificherei almeno tre: 1) discriminazione nella burocrazia universitaria; 2) discriminazione nella didattica universitaria; 3) discriminazione nella ricerca universitaria.

5. La burocrazia universitaria

Nella burocrazia universitaria: l'uso dell'italiano è impedito nelle domande di finanziamento internazionale, nazionale, e molto spesso (ed è il caso meno giustificabile) anche in sede locale. Le domande devono essere presentate tutte esclusivamente in inglese, pena la loro nullità. Se ne può trovare una parziale giustificare per le domande presentate a organi internazionali. Tuttavia anche per le domande di ricerca "nazionali" la scelta dell'inglese in forma esclusiva è stata imposta negli ultimi anni, con le motivazioni più fantasiose, e persino invocando talora il principio che il giudizio di valutatori stranieri è sempre e sicuramente garanzia di imparzialità, indipendentemente dalla competenza e specificità, che invece per certe ricerche richiederebbe per forza anche la conoscenza dell'italiano[4]. Reagendo a queste imposizioni prive di senso, abbiamo sempre sostenuto che NON si tratta di eliminare l'inglese, ma allo stesso tempo non vi è ragione per ELIMINARE L'ITALIANO. La soluzione delle DUE lingue COESISTENTI garantirebbe, come è stato per anni, la massima trasparenza, e soddisferebbe appieno le esigenze di circolazione internazionale, salvaguardando allo stesso tempo i legittimi diritti della lingua ufficiale. Tuttavia questa argomentazione, nella sua lineare logica apparentemente indiscutibile, non ha mai incontrato il favore del ministero, che non si è nemmeno degnato di discuterla con noi. Perché il ministero non prova mai a considerare una linea diversa di azione, o almeno non spiega in maniera comprensibile le ragioni della propria scelta?

Mi pare che in questo caso, cioè il caso in assoluto più grave di abolizione forzosa dell'italiano nell'uso pubblico, se si volesse davvero invertire la tendenza, non sarebbe necessario introdurre la complicazione di nuove leggi (rimanendo fermi al palo in attesa della loro più o meno probabile approvazione). Basterebbe un atto formale immediato: chi emette i bandi, cioè il ministero, è perfettamente e facilmente in grado di condizionare la scelta della lingua. Lo ha fatto in passato, a danno dell'italiano. Può farlo oggi, a vantaggio dell'italiano. I promotori delle nuove norme, se davvero amano l'italiano e vogliono fermare la sua ingiusta emarginazione, dovrebbero prima di tutto farsi promotori di una campagna di convincimento nei ministeri di un governo in cui sono rappresentate le forze politiche della loro stessa maggioranza. 

6. L'equivoco interessato della didattica universitaria e della ricerca 

Per il punto 2), cioè la didattica universitaria affidata in maniera crescente all'inglese, anche là dove non vi è alcuna utilità nella scelta, sarebbe più che sufficiente invitare il ministero dell'Università al rispetto di quanto stabilito dalla sentenza 42/2017 della Corte costituzionale, una sentenza che è stata sostanzialmente ignorata, se non volutamente e astutamente disattesa, nel silenzio del Parlamento e dei Governi. I promotori delle nuove leggi, dunque, potrebbero farsi carico di interrogazioni parlamentari, le quali non mancherebbero di rompere il velo d'oblio su di un problema ben noto e di vecchia data, ma bellamente trascurato.

Per il punto 3), cioè la ricerca, sulla quale siamo intervenuti tempo fa con un'apposita analisi fondata sui dati Anvur, basterebbe lasciare libero spazio alle scelte dei ricercatori, evitando però di forzarle mediante una subdola discriminazione a priori nella valutazione dei 'prodotti' in lingua italiana. Si dovrebbe tener conto anche delle specificità di settore, connesse alla differenza tra discipline. Si eviterebbe così una spinta indiretta, dannosa e truffaldina, all'abbandono dell'italiano, lasciando spazio alla libera opzione degli studiosi, senza truccare le carte, come si fa oggi, quando si tende ad avvantaggiare ciò che magari è mediocre o di minor valore, e vanta solo il pregio di essere proposto in inglese. La valutazione si deve fare sui contenuti e sul loro peso reale, non a priori sulla scelta della lingua, scelta che, oltre al resto, marginalizza le altre lingue estere, a cominciare da quelle della UE. 

7. Artefatti meccanismi premiali 

Inoltre, nella politica universitaria, dovrebbero essere messi sotto esame i meccanismi premiali che spingono gli atenei a forzare l'istituzione di corsi in inglese là dove non sono necessari, in nome di un concetto di internazionalizzazione utilizzato in modo velleitario e pretestuoso (su questo fa luce la già citata sentenza 42/2017). L'internazionalizzazione, intesa (male) come richiamo a qualunque costo di studenti quali che siano, pur che stranieri, selezionati solo in base alla loro non-nazionalità italiana assunta come titolo di merito e di vantaggio, porta ad attirare 'clienti' mediante il ribasso dei costi e facilitazioni di vario genere (anche nella valutazione), al solo scopo di far lievitare i numeri. I numeri sono considerati di per sé un traguardo, indipendentemente dai risultati e dai metodi adottati, e senza che sia chiaro lo scopo di operazioni del genere, ovviamente ben diverse dall'attrattività reale rappresentata dai più prestigiosi atenei del mondo, in cui si fa la fila per entrare, e in cui si paga un caro prezzo per l'iscrizione e la frequenza[5]. Ci si dovrebbe chiedere quando e in quali casi sia utile formare medici, ingegneri ecc. insegnando loro il sapere solo in una lingua diversa dalla nostra, quasi che il loro destino certo fosse l'emigrazione, e conducendo l'italiano verso una lenta ma inesorabile asfissia culturale, mediante una sorta di provincialismo suicida. Ci si comporta come se tutti questi medici o ingegneri (e ormai persino umanisti) dovessero partire il giorno dopo per l'estero, pur formati in università con bilancio sostenuto dal contribuente italiano. Sarebbe dunque utile verificare la qualità, l'utilità (sempre data per scontata in partenza, ma mai dimostrata), e anche l'effettiva conduzione dei corsi in inglese già attivi ed approvati, che non mancano talora di suscitare perplessità, e fanno realisticamente sospettare un livello meno elevato di quelli tradizionali in italiano. Si osservi il fatto che vengono trionfalmente annunciati corsi universitari di presunta alta specializzazione in inglese, ma si richiede l'accesso mediante il possesso del livello B1: ciò equivale a una dichiarazione di inadeguatezza in partenza, perché tale livello garantisce magari la comunicazione per usi turistici quotidiani, ma non assicura certo la capacità di comprendere e imparare discipline scientifiche di alto livello. Allo stesso tempo credo sia necessario verificare le modalità con cui si concede agli studenti stranieri che si iscrivono in Italia la qualifica del sufficiente livello linguistico: c'è il sospetto che questo livello non venga verificato secondo gli standard internazionali, ma venga ceduto con sconto, al solo scopo di far crescere a qualunque costo il numero degli studenti stranieri, in particolare quelli extraeuropei. Tutte queste deviazioni si spiegano, come ho detto, non per una politica ideata dagli atenei, ma come risposta obbligata agli sconcertanti meccanismi premiali che ho avuto modo di descrivere.

8. Chi vuole intervenire, può farlo subito 

Tutto quello che abbiamo qui discusso offre un vasto campo di intervento che potrebbe essere coltivato dai rappresentanti della nazione che intendessero avviare una seria politica linguistica, diversa da quella attuale. La semplice applicazione delle regole già esistenti sarebbe più incisiva rispetto alla fantasiosa proposta di leggi nuove di difficile attuazione, e inciderebbe direttamente sulla realtà italiana (certo, non senza suscitare polemiche: ma polemiche che avrebbero perlomeno un senso, perché a quel punto sarebbe palesemente in corso la rottura di un modello sbagliato di politica linguistica). Le resistenze non mancherebbero, perché la lenta e costante opera di erosione dello spazio della lingua italiana è andata molto avanti in questi anni, diventando opinione diffusa e luogo comune, nonostante i ripetuti interventi dell'Accademia della Crusca.

9. La scuola e la scarsa considerazione dell'italiano 

Quanto alla scuola, si potrebbe suggerire ai responsabili del Ministero dell'istruzione e del Merito una seria riflessione sui risultati del CLIL e sulla sua discutibile estensione a discipline diverse da quelle che richiedono l'uso di metalinguaggi. Sarebbe anche l'occasione per verificare le modalità di penetrazione dei Licei Cambridge, ormai estesi in maniera capillare, con una crescita avvenuta nel più totale disinteresse da parte del ministero dell'Istruzione, ma con riflessi pesanti sulla didattica, sui libri di testo acquistati all'estero, sui criteri di valutazione e sul contenuto dei programmi, con risultati paragonabili a quelli di una vera piccola riforma, condotta però in maniera surrettizia, senza controllo effettivo, e avviata per interessi privati di marketing internazionale.

Arriviamo così alla questione che spesso spicca come più grave, e che in realtà a noi pare secondaria rispetto ai gravissimi casi sopra elencati di abolizione globale e sostanziale della lingua italiana, emarginata ad opera della stessa burocrazia italiana. La lingua italiana viene estromessa da funzioni che dovrebbero esserle garantite. Si parla invece anche troppo della questione dei prestiti integrali e degli esotismi isolati, si lamenta comunemente la sovrabbondanza di anglismi. Senza dubbio l'afflusso di anglismi è ormai patologico, ma la causa di questo sintomo della malattia (l'eccesso di forestierismi è appunto sintomo, non causa) sta proprio nella scarsa considerazione attribuita alla lingua italiana, prodotta dalle scelte improvvide che abbiamo stigmatizzato nelle argomentazioni fin qui svolte.

10. Un banco di prova. Cambiare politica linguistica non richiede nuove leggi: basta aver voglia di fare

In molti casi il gruppo Incipit, nei suoi comunicati, ha dovuto battersi contro l'abuso di termini inglesi introdotto da istituzioni statali nella propria comunicazione istituzionale. Per rendersene conto, basta scorrere i vari comunicati Incipit, dove si è discusso l'uso di termini come hot spot, voluntary disclosure, stepchild adoption, whistleblower, home restaurant, caregiver, revenge porn, data breach, compliance, booster e via dicendo. Tutti erano stati messi in circolazione dalla burocrazia italiana, non certo imposti da qualche autorità straniera malevola nei confronti dell'Italia. Anche in questo caso, tuttavia, l'attenzione si dovrebbe concentrare non tanto su singoli anglismi, ma sulle azioni che moltiplicano inutilmente la pressione dei forestierismi sollecitandone la crescita in funzione non della praticità, della chiarezza, dell'efficacia fattuale, ma spesso sfruttandoli esattamente come un latinorum. Con buona pace di coloro che nelle polemiche di questi giorni hanno ribadito che il vero nemico della comunicazione pubblica è il burocratese, va ribadito che oggi l'inglese svolge appunto la funzione di burocratese. Basta leggere il Piano scuola 4.0 per rendersene conto. C'è dunque chi coltiva amorevolmente gli anglismi in una miscela di oscurità burocratica, come comodo moltiplicatore di pseudoconcetti che arricchiscono il vaniloquio retorico ammantato di esibita tecnocrazia[6]. Anche in questi casi (alcuni dei quali ancora attuali: penso appunto al Piano scuola 4.0), non sono necessarie nuove leggi per intervenire efficacemente. Sarebbe sufficiente l'avvio di una politica linguistica che, intervenendo caso per caso, perseguisse obiettivi di chiarezza e concretezza linguistica, e attribuisse a ciascuna lingua, italiano, inglese, francese, tedesco o altro che sia, lo spazio che merita, favorendo fra l'altro una miglior considerazione del concetto di "lingua straniera" e di "internazionalizzazione", non all'insegna del monolinguismo a senso unico, ma al servizio della pluralità delle lingue d'Europa.


Note: 

[1] Così si ricava ad es. dalla sentenza 42/2017 della Corte, una sentenza che avremo modo di citare anche più avanti: «3.1.- La giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di precisare - in relazione al "principio fondamentale" (sentenza n. 88 del 2011) della tutela delle minoranze linguistiche di cui all’art. 6 Cost. - come la lingua sia "elemento fondamentale di identità culturale e [...] mezzo primario di trasmissione dei relativi valori" (sentenza n. 62 del 1992), "elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare" (sentenza n. 15 del 1996). Ciò che del pari vale per l’"unica lingua ufficiale" del sistema costituzionale (sentenza n. 28 del 1982) - la lingua italiana - la cui qualificazione, ricavabile per implicito dall’art. 6 Cost. ed espressamente ribadita nell’art. 1, comma 1, della legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche), oltre che nell’art. 99 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, "non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale", teso a evitare che altre lingue "possano essere intese come alternative alla lingua italiana" o comunque tali da porre quest’ultima "in posizione marginale" (sentenza n. 159 del 2009). La lingua italiana è dunque, nella sua ufficialità, e quindi primazia, vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 Cost.»
[2] L'argomentata relazione dei tre accademici si legge nel fascicolo n. 33 de "La Crusca per voi" (pp. 1-3).
[3] Si veda la sua intervista su "Il Foglio" del 7/3/2017, pp. 1-2.
[4] Questa scelta autoritaria è stata spesso criticata dalla Crusca: si vedano i nostri interventi nel gennaio 2018, e la lettera al ministro Manfredi dello stesso anno.
[5] Leggo per esempio sulla "Repubblica" 21 giugno 2010, sezione Affari e finanza, p. 50, la seguente quasi ingenua ammissione del "ribasso" candidamente offerta dal rappresentante di un importante ateneo italiano (di cui ometto il nome, del resto verificabile nel giornale): "Alcune università italiane hanno una buona reputazione all' estero - rivendica **** di ***** - e poi il rapporto prezzo/qualità dei nostri corsi è ottimo, se si considera che in università statali come la nostra, la retta annua per gli stranieri è di 3.500 euro, un valore inferiore a quello di molti altri atenei nel mondo".
[6] È quanto Incipit ha denunciato in diverse occasioni, per esempio discutendo il Piano scuola 4.0 o le Indicazioni strategiche ad interim per la preparedness e readiness ai fini della mitigazione delle infezioni da SARS-CoV-2 in ambito scolastico (a.s. 2022-2023), e prima ancora il Sillabo per la scuola secondaria di secondo grado.


Redazione
28 maggio 2023 - 00:00
Sono contento che il mio intervento, che è anche l'ultimo Tema scritto mentre ancora ricoprivo la carica di Presidente dell'Accademia, abbia suscitato un dibattito molto ampio. Sono meno contento per il fatto che questo dibattito è stato divagante, cioè si è indirizzato, specialmente nella fase finale, verso argomenti i quali non mi sembra si leghino ai temi che ho proposto. Capisco che stare al tema fosse difficile: si sa che ognuno è abituato a farsi i fatti suoi. O forse io mi sono spiegato male, o ho scritto troppo, come temeva Fabio Marri. Questo mi esenta dal rispondere a chi, appunto, ha seguito con disinvoltura la sua strada personale e ha colto l'occasione per dialogare liberamente con altri intervenuti. Ringrazio il collega Fabio Marri per la sua attenzione, ringrazio Licia Corbolante per le precisazioni. Ringrazio chi ha gentilmente manifestano il suo consenso, come Luigi Foschini (un po' di consenso fa sempre piacere: consola), e anche come Marco Valente. Devo dire, tuttavia, che è sostanzialmente sfuggito (in particolare all'anonimo Signor "Puzzone") il vero motivo per cui ho scritto. Mi auguro che, almeno, l'abbiano inteso gli uomini politici che hanno presentato le leggi di cui si parla nel testo, ovviamente non intervenuti in questa sede, e spero (ma con speranza assai flebile, o meglio con semplice auspicio formale d'obbligo) che intendano qualche cosa gli altri uomini politici che dovranno votare su quelle proposte, se mai saranno messe ai voti, cosa di cui non sono certo. In sintesi, il mio discorso voleva: a) riassumere le recenti proposte di legge sulla lingua; b) mostrare che chi volesse fare sul serio, cioè incidere immediatamente sulla realtà, potrebbe operare molto meglio e rapidamente anche senza queste nuove leggi. Naturalmente, in tal caso l'intervento avrebbe una ricaduta mediatica più limitata. I proponenti, forse, ne trarrebbe meno fama. Le azioni immediate, magari sollecitate da interrogazioni parlamentari, susciterebbero però un bel vespaio, perché sarebbero il segnale di un forte mutamento di indirizzo. Le azioni pratiche dovrebbero essere di competenza dei due ministeri che ho cercato di chiamare in causa direttamente, anche senza fare nomi: i ministri di quei dicasteri sono i primi responsabili (involontari, certo, perché la responsabilità è dei predecessori) di una situazione di grave danno per l'italiano. Ma tra un po', se non agiranno, pari responsabilità sarà loro, per aver mantenuto su questo tema una linea di continuità con il passato. Concludo: sempre più mi pare risibile strapparsi i capelli per quattro o otto o mille parole inglesi, qualcuna seria, altre più o meno ridicole (contro le quali in molti casi mi sono battuto anch'io), quando la posta in gioco è l'emarginazione globale dell'italiano in settori chiave, per primo quello della burocrazia scolastica e universitaria, e poi quello della didattica universitaria di livello più alto.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
25 maggio 2023 - 00:00
Un nostro politico anni fa pavento' il rischio che l'Italia divenisse o ambisse a divenire il cameriere d'Europa. La nostra vocazione al commercio, agli scambi, all'apertura, non più supportata come ai tempi gloriosi di Roma o Venezia dall' espansionismo militare, nell'epoca della magnifica e progressiva globalizzazione (quante ditte o dittine col nome global qua global là) si fa pieghevole inclusione, di merci, capitali, persone. Soprattutto, come Pietro il Grande guardò ad Occidente per dirozzare i Russi, così da noi i "riformatori" hanno a più riprese guardato oltre le alpi, Firmian e Soave agli Asburgo d'Austria, Foscolo a Napoleone, la destra liberale alla Prussia, Mussolini a Hitler, De Gasperi agli U. S. A., Togliatti a Mosca, Prodi all'Europa. E la lingua italiana? tutt'ora esistente, assorbe e va avanti, e non perira' sostituita dall'Inglese o da una neolingua su di esso ricalcata, prona ai tifosi dell'informazione in nanosecondi. In fondo siamo dei furbi, registriamo e trasmettiamo nei convogli del metro romano immancabili traduzioni in inglese di indicazioni vocali in italiano, nello zelo eccessivo di apparire internazionali, nella Caput mundi, ma poi, senza nessuna soggezione romanizziamo il forestierismo, giustamente dico io, siamo a Roma, e diciamo, colla bella cassiera di Ostia : so' stata ar Carefoure.

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Luigino Goffi
24 maggio 2023 - 00:00
1: Come mai, nei giornali sportivi italiani, i vocaboli inglesi ènno così diffusi? Si tratta, forse, di una forma di rispetto verso coloro che hanno inventato li sport di squadra? Non pare, visto che la parola "football" viene sostituita sistematicamente con "calcio". D'altro canto, è impossibile negare il successo di "volley" o di "basket", che, ormai, hanno sostituito "pallavolo" e "pallacanestro". Non è difficile capire il perché. I giornali hanno bisogno di titoli cubitali, impossibili con parole lunghe, e, dunque, adottano i vocaboli più brevi, a prescindere dalla loro nazionalità: "calcio", "volley", e "basket", non certo le lunghe "football", "pallavolo" e "pallacanestro". Come italianizzare in modo razionale quelle due parole inglesi? Forgiandole sull'unico neologismo italiano che si è imposto: "calcio". Le caratteristiche metriche di "calcio" sono la bisillabicità e la terminazione in "-io" atono. E, allora, ecco subito trovato "vòllio" e "céstio". Molti altri nomi sportivi stranieri possono essere italianizzati così, a cominciare da "sport" - parola non italiana perché finisce per consonante -, che ben può diventare "spòrtio", senz'aumento di sillabe. E non è difficile il velocizzo di "pallamano" in "mànio", "pallanuoto" in "nuòzio", "palla velenosa" in "tòcchio". In certi casi, manco c'è la parola italiana, e, allora, "badmington" ben può diventare "plùmio" (dalle piume della pallina), "tennis"_"tènnio", "ping pong"_"pìngio", "lacrosse"_"làcrio". "Baseball" ("pallabase" è scomparso da tempo) può diventare "bàsio", "softball"_"sòfflio". Per quanto riguarda le gare campestri - motocross, ciclocross (o bicicross) e pedecross (corsa a piedi fuori stadio) -, la soluzione è semplice. E' sufficiente constatare che il prefisso "moto-" è pieno di "-o-", "bici-" è pieno di "-i-", e "pede-" pieno di "-e-"; e, allora, avremo: "cròssio", "crìssio" e "crèssio". Fa ridere? Peccato che così il problema è risolto. 2: E anche al di fuori del settore sportivo abbiamo molte soluzioni a portata di mano, a prescindere dall'origine della parola straniera: "mercaggio" per "marketing", "ospo" (da "ospizio") per "hot spot", "scansio" pe' "scanner", "staglio" pe' "skyline", "steccasa" pe' "steak house", "virso" per "virus", "prìmio" per "premier", "contèino" per "container", "fèstio" per "festival", "finzia" per "fiction", "gàrrio" per "guard rail". Come si vede, la lingua ha buone idee, è chi non ha idee ad avere buona lingua.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
25 maggio 2023 - 00:00
"Come si vede la lingua ha buone idee, è chi non ha idee ad avere buona lingua". Una frase come questa mi fa pensare, sicuramente del tutto a torto, che: 1) chi la scrive si identifichi colla lingua; 2) contrariamente all'assunto che il linguaggio è diretta espressione del pensiero, chi non ha idee parli bene; 3) avere idee significhi perdere il proprio tempo a sostituire, novello d'Annunzio (ma lui era lui) con neologismi creati di sana pianta parole GIÀ ACCLIMATE nella nostra lingua; 4) un direttore di quotidiano cui capiti miracolosamente di dedicare 9 colonne alla finale di palla velenosa decida che "tocchio" si presti bene a risparmiare spazio e non pensi invece che gli italiani che conoscano il gioco possano smarrirsi nell' associare il gioco alla strana neoformazione dal suono evocativo forse ma di ben altre attività; 5) insomma è tutto così facile, a portata di mano, scientifico, e, non si sa perché, non Luca Fiocchi Nicolai, un non dotto impegnato in più gratificanti e fattibili faccende, no, il mondo italico dei veri dotti non si sia ancora accorto dell'enorme utilità di crossio e vollio. Bene, scommetto cinquecento euro che di qui ai prossimi cinquecento anni nessuna, ma proprio nessuna delle parole proposte verrà accolta da anima viva, almeno su sollecitazione del suo promotore.
LUCA FIOCCHI NICOLAI
19 maggio 2023 - 00:00
Al Dott. Goffi faccio sommessamente notare che: 1) ogni parola è pregna di storia e senso. E lunga o breve sprigiona una musica suasiva, un potere evocativo. Se ne giova il verso poetico. Esistono diverse funzioni del linguaggio, non tutte riconducibili a necessità pratiche o commerciali o di immediata comunicazione. Inoltre ogni parte del lemma concorre a fornire il DNA, la storia stratificata della voce. La fota? orrendo! mozza l'elemento che ci dà l'etimo (da photos). 2) una parola isolata da contesto discorsivo nel quale è collocata si presta ad ambiguità. Occorre ricavare il senso preciso dalla frase. Il significato di Eurozona, foto ecc. è immediatamente colto da contesti particolari e persuasivi, ovvero il discorso pubblico nel primo caso, l' uso nell'altro. Non vedo alcuna necessità di "interventi d'ufficio". Velleitari del resto. 3) Come giustamente fatto notare dal neopresidente Prof. Paolo d'Achille in un'intervista istruttiva, i nuovi media, promettendo immediatezza d'uso ed eliminazione di barriere spaziotemporali, invitano a scrivere come si parla, senza più quella calma unica in grado di esercitare la riflessione (quel "sta scrivendo" mi ingenera ansia) e di fatto impoverendo pensiero ed espressione. La fretta nello scrivere, produttrice di sciatteria e noia, non mi risulta fosse in cima alle preoccupazioni di Seneca

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
18 maggio 2023 - 00:00
Ogni tanto mi chiedo, provando ad arrivare fino alla fine di un intervento, se al Presidente Onorario Prof. Claudio Marazzini tocchi leggere tutto, ma proprio tutto integralmente (compreso me). Visto che si auspica brevità... Il Dott. Goffi non ha colto, forse non essendo cultore del rebus, la mia ironia, rivolta più che a lui alle "regole" enigmistiche che annaspano a stare al passo coi tempi. A me creatore di giochi le forme senza acca del verbo avere facevano comodo, così come mi giovo, lo ammetto, di prestiti forestieri finenti con consonante, utili a formare incastri da cui magicamente si generano parole inedite. Non tedio chi mi legge con tecnicismi. All'interno della comunità degli enigmisti i princioari redattori hanno convenuto di svecchiare forme, lessico e sintassi, per quanto possibile, del rebus. Di ricorrere non più (io non concordo) a tutte le risorse del vocabolario (termini aulici, desueti, bizzarri, con poche occorrenze, regionali ecc.) bensì ad un italiano che si avvicini maggiormente al neostandard scritto. Ogni parola inglese acclimata o che abbia buona circolazione, anzi ogni parola nuova introdotta dallo Zingarelli è bene accetta. Si dirà : che c'entra col tema? Se il Dott. Goffi avesse, dico per dire, il compito istituzionale e le capacità miracolose di attuare tutto quello che dice sia "scientifico" inculcandolo nei crani refrattari, immaginavo l'imbarazzo e lo spazientimento di gran parte dei rebussisti (già, non so il perché della s geminata) costretti dal tirannico (scherzo, il Dott. Goffi mi è simpatico lo ammetto) e paterno neolegislatore in fatto di lingua. Quanto a Claudio credo che l'insuccesso di introduzioni dall'alto dovrebbe suggerire a memento una certa umiltà e prudenza. Ma qui mi taccio in attesa sitibondo della replica di chiusura del Prof. Marazzini, del quale ho potuto apprezzare la curatela in collaborazione col Fornara dell'edizione anastatica della grammatica del Fortunio.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
18 maggio 2023 - 00:00
P. S. Dimenticavo: sono troppo incolto per definirmi un umanista, se non nell'anelito a cavare dai grandi umanisti di ieri e di oggi qualche stilla della loro grandezza. Ciò che non è opportuno fare, in questa prestigiosa sede, in questa Agorà che l'Accademia offre a chiunque, persino a me, è usare la parola Umanista in senso negativo e in contrapposizione a Scienziato, ché allora davvero non si andrebbe molto lontano.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
15 maggio 2023 - 00:00
Non c'è che dire, l'Accademia è in cerca di novelli Claudii (ma lui, che era pur sempre l'imperatore, "si limitò" , coll'esito che si sa, a tre caratteri). Leggendo l'ultimo intervento il capo girava, sperso tra "cao" e l'algebra. Le riviste più importanti di enigmistica, per le quali collaboro in quanto facitore di rebus, hanno deciso da tempo di non accettare più elaborati tra le cui chiavi figurino le desuete forme 'accentate' del verbo avere al posto delle corrispondenti regolari con h iniziale. Un tempo, per facilitare la composizione, si poteva scrivere a' e a'nno, invece di ha e hanno, di difficile realizzazione. Ora che si fa, si torna indietro?

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Luigino Goffi
17 maggio 2023 - 00:00
1: La domanda finale - "Ora che si fa, si torna indietro?" - è sintomatica del modo di ragionare di alcuni umanisti. Gli scienziati, una volta dimostrata l'erroneità di una legge fisica, la abbandonano immediatamente, sostituendola con una più convincente. Un certo umanesimo, invece, impiega, a volte, secoli (come vedremo), per abbandonare una tesi grammaticale confutata, e accettare una nuova tesi dimostrata. Alla prima novità, se ne esce con frasi come quella vista: "E adesso? dobbiamo cambiare tutto?". "Benvenuti nel mondo della realtà!" commenterebbe uno scienziato senza peli sulla lingua. Naturalmente, c'è sempre l'umanista che crede di cavarsela affermando che la scienza sarebbe oggettiva, mentre l'umanesimo sarebbe soggettivo, e che, dunque, non ci sarebbe bisogno di mutare le regole della grammatica, tanto: una varrebbe l'altra. Peccato che se l'umanesimo fosse veramente soggettivo, allora sarebbe soggettiva - e dunque non valida - anche la frase con cui lo si dicesse. Insomma, vale sempre - anche per le discipline umanistiche - il principio che se la verità non esiste, allora non è verità neanche la frase con cui lo si dice. 2: La dannosissima viscosità sopra vista, che rallenta nei secoli l'accettazione di tesi sacrosante, ha operato, appunto, anche nel caso di due delle tre lettere claudiane. 2.1: La terza era sbagliata, anzi: doppiamente sbagliata, perché la /C/ rovesciata (antisigma, /C/ inversa) avrebbe dovuto indicare i gruppi °BS° e °PS°. Il primo errore sta nel pensare che una lettera (l'antisigma) possa indicare due gruppi diversi; o indica °BS° o °PS°. Ma anche qualora si scegliesse che l'antisigma indicasse solamente un gruppo, ad es. °BS°, si commetterebbe un errore, perché - dato che °BS° non è un suono unico, ma due suoni in successione - verrebbe violato il principio che a un solo suono debba corrispondere un solo simbolo: principio che evita il caos. Infatti, ragionando in quel modo, ci vorrebbero moltissimi altri simboli, perché, allora, bisognerebbe indicare con un solo simbolo anche °BL°, °CR°,°PL°, °CL°, °DR°, eccetera. La verità è che ciascun gruppo è composto dall'accostamento di due suoni, e, dunque, deve essere scritto con due lettere, come indicato. La tesi di Claudio sull'antisigma era, dunque, sbagliata, e, infatti, non si è mai imposta. A ben diversi esiti si perviene colle altre due claudiane. 2.2: I romani non distinguevano graficamente la °u° e la °v°, scrivendole entrambe /v/. Claudio volle introdurre la lettera greca digamma, o vau, per indicare la consonante, ma siccome era, nella grafia, identica alla /F/ latina (la "f" greca si scriveva in un altro modo) allora la invertì (girandola di mezzo giro), e ottenendo, così, la digamma inversa, deputata a indicare il suono °v°, mentre il simbolo /v/ avrebbe, da quel momento, indicato il suono °u°. Ora, che cosa dovremmo dire, che Claudio ha perso la partita solo perché il simbolo digamma non è stato mai più usato? La cultura non è come lo sport, in cui vincono le persone; nella cultura vincono le idee, le quali, se giuste, sopravvivono a chi le ha inventate. E qual era l'idea di Claudio? imporre, forse, la forma, cioè il simbolo, del digamma inverso? No di certo, il suo scopo era quello di introdurre un simbolo - qualunque esso fosse (digamma o no) -, diverso da tutti gli altri, in modo da non confondere più il suono °u° e il suono °v°. E questo scopo è stato pienamente raggiunto, sia pure solo alla fine del sec.1600 (Migliorini, St. ling. it., Sansoni, 7.12), coll'uso generalizzato del simbolo /u/ pel suono °u°, e del simbolo /v/ pel suono °v°. 2.3: Lo stesso vale per la terza claudiana: la /H/ dimezzata in verticale, che Claudio voleva indicasse il suono mediano tra °i° e °u°, cioè la "u" francese, o lombarda, e che oggi indichiamo con /y/. 3: Claudio, insomma, non aveva azzeccato la forma giusta, ma aveva capito quello che contava, e cioè che se un suono è diverso da tutti gli altri, allora ha diritto a una lettera tutta sua, altrimenti è la confusione. La lezione da trarre, in relazione al Tema del mese, è che, per salvare l'italiano dall'inondazione inglese, le leggi e le sentenze potrebbero non bastare, e che le tesi dimostrate (come quelle due di Claudio), prima o poi si impongono, e che, allora, data la pressione esercitata dall'inglese, tanto vale accelerare i tempi.
Luigino Goffi
14 maggio 2023 - 00:00
1: Bisogna accettare la sfida velocista dell'inglese e creare per l'italiano neologismi brevi. 2: Ma prima bisogna chiarire come vada scritto l'italiano veloce, perché già disponendo di un alfabeto che rispetti il principio di corrispondenza tra i fonemi (i suoni) e i grafemi (i simboli, cioè le lettere dell'alfabeto) si risparmierebbe la scrittura di molte lettere, e potremmo, così, inoltre, sul versante dell'apprendimento, dire che l'italiano si scrive come si legge, aiutando gli stranieri (e i nostri scolari) ad impararlo celermente e senza sforzi. Questo serve, altro che le leggi!. 3: Una grande innovazione dell'italiano rispetto al latino è stata quella di aver introdotto le palatali - "c" dolce", "g" dolce", "sc", "gl" e "gn" -, ma solo nel suono, non anche nello scritto, perché non si fu capaci di inventare nuovi simboli. E' giunta l'ora di risolvere il problema almeno sulla tastiera. 4: Il nostro alfabeto ha due simboli sovrabbondanti: la "q" e la "x". 4.1: La "q" è sovrabbondante perché "scuola", "equo", "cui", e "qui", e, comunque tutte le parole colla "c" dura e colla "q", possono essere scritte colla "k"; a volte ci vorrà l'accento, come in "kuì", ma, ovviamente non sarà un problema. La superfluità della "q" ci torna, però utile, perché, d'ora in poi, potrà ben simboleggiare il suono della "g" dura; e la lettera scritta "g" sempre quella dolce. Dov'è il risparmio? Innanzitutto, i nostri scolari e gli stranieri non dovranno più lambiccarsi il cervello per capire se "scuola" si scriva con la "c" o col la "q". Inoltre, sparirà l'assurda regola per la quale la "c" e la "g" cambiano di suono a seconda della lettera che segue, che è un fattore di difficoltà di apprendimento che la nostra lingua non può permettersi. La "c" dolce e la "c" dura sono due suoni diversi, e, dunque, devono avere due lettere diverse. Stesso discorso vale per la "g", esattamente come, chessò io, per la "f" e la "m", che, avendo due suoni diversi, hanno due lettere diverse. Infine, terzo risparmio, questa volta di carta e inchiostro, non ci sarà più bisogno della "h" e della "i" puramente grafiche. Ad es., "ciao" andrebbe scritto "cao", che non è "kao" di "kakao". E "agio" andrebbe scritto "ago", che non è "aqo", plurale: "aqi": gli strumenti per cucire. La "i" di "ciao", e la "h" di "aghi", spariscono, perché inutili. 4.2: Anche la "x" è sovrabbondante, ma in un senso diverso dalla "q", perché la "x" viene pronunciata °ks°, i quali sono due suoni, non uno. In altre parole, il suono °ks° va scritto, appunto, /ks/, perché se i suoni sono due, allora anche le lettere devono essere due [Preciso che i cerchietti ° , simbolizzando le onde sonore, indicano la pronuncia della parola, cioè il suono, mentre le barre inclinate / , simbolizzando le penne impugnate pe' scrivere, indicano la scrittura di una parola. Preciso inoltre, che a volte, se il discorso è chiaro, uso le virgolette " ]. Ora, dato che la "x" è sovrabbondante, la useremo per indicare quale suono? La risposta ce la fornisce Leonardo Sciascia quando scrive: "Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia" (in "La Sicilia come metafora", Mondadori, 1979, pag. 12 al centro). Si noti: la /x/ pronunciata °sc° permette di dimezzare il numero delle lettere. Se qualcuno non fosse ancora convinto, si può chiedere perché l'incognita algebrica è indicata tradizionalmente colla x. E la risposta è che l'algebra è stata inventata dagli arabi, che chiamavano l'incognita col nome di "cosa", "cosa da trovare"; ma "cosa" in arabo si dice "sciài", che inizia con "sc", e "sc" veniva traslitterata, nell'italiano di quel tempo, appunto con "x". Insomma, l'italiano delle origini - si pensi anche alle "k" della Carta Capuana del 960 - era migliore di quello di oggi. 4.3: Anche il fonema °gl° (di "aglio"), essendo un suono unico, andrebbe scritto con un unico simbolo; ma quale? Sulla tastiera abbiamo - ormai inutilizzato da anni - il simbolo della lira ("£"): usiamolo! Ad esempio "aglio" > "a£o": risparmio di due lettere, e, soprattutto, rispetto, come in tutti i casi sopra visti, del principio "un suono un simbolo". 4.4: L'ultimo problema è come scrivere con un solo simbolo il suono "gn" di "agnello". Purtroppo, qui non c'è una soluzione brillante come nei casi precedenti. Qualcuno potrebbe suggerirmi di usare "Word", ma trovo inammissibile che per poter scrivere un italiano razionale si debba usare un programma apposito. Le nostre tastiere sono piene di tasti inutili: "à", "è", "ì", "ò", "ù"; ne basterebbero due: uno coll'accento acuto, e l'altro con quello grave. In questo modo, i tre tasti rimanenti potrebbero venir rinominati. Nelle tastiere attuali, l'unico simbolo utilizzabile per °gn° è il francese /ç/, che, però, si legge °s° (infatti è graficamente simile), come in "garçon français". E allora, tanto vale che scrivano *"garson fransais", e lascino libero il simbolo! Comunque, cercherò di non usarlo.

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LUCA FIOCCHI NICOLAI
12 maggio 2023 - 00:00
Già, "costruire un dizionario di neologismi"... Gli amanuensi abbreviavano, ma il latino rimase lo stesso; con esso i volgarizzatori rivaleggiarono e il Leopardi provò puero a superare Orazio in brevità. Basterebbe quindi il latino, bello che pronto. Ovvio che una lingua non si inventa. L'Italiano non sparirà certo per l'invasione di inglesismi o per risparmiare carta, semmai destinata a lasciare il passo all'ebook e la paratassi, come l'ellissi è prevista dalle regole. Non solo Cicerone ma anche Seneca, per non parlare di Tacito sono contemplati nella memoria dalle infinite risorse della nostra favella. Inoltre "petaloso" ci dice di una lingua tutt'ora produttiva dal basso, dall'inconscio direi. Ciò invece di cui si sente la mancanza è un saldo ancoraggio alla nostra tradizione letteraria, percepita cone estranea e ingombrante da coloro che prima fecero guerra al latino perché di classe (il processo alla retorica è precedente, ad opera di De Sanctis e Croce) poi si incaricarono di promuovere l'espunzione dai classici di Carducci (con d' Annunzio non fu possibile) e Tommaseo ("stupidi" per Pasolini), e anche il "barnabita" Parini non se la passa bene, a giudicare dal suo posto ridotto o assente in autorevoli antologie e collane, infine rifiutarono l'idea di un canone, per accogliere nella letteratura i testi delle canzoni. E la questione della lingua? segue quella della sovranità politica e culturale. Che la lingua si evolva, recependo mutamenti antropologici ed etnici è un fatto, l'importante è tradere il nostro patrimonio letterario, rifarsi a un canone di optimes auctores, vigilare sul buon gusto, conservare e trasmettere ai giovani il piacere per la bella scrittura. Non è poco di questi tempi

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Luigino Goffi
18 maggio 2023 - 00:00
1.1: L'abbreviazione di una parola è l'ammissione della sua lunghezza. La sua velocizzazione è la soluzione del problema. Se si abbrevia /fotografia/ in /fotogr./, si ammette che la parola è troppo lunga, e però, poiché non la si leggerà °fotogr° ma °fotografia°, si ammette, del pari, che neanche /fotogr./ vada bene, cosicché il problema è solo rattoppato, non certo risolto. E se si abbrevia ancora di più in /fot./ si costringerà a un'interpretazione non immediata, facendo perdere tempo e creando possibilità di equivoci: che cosa vuol dire /fot./? °fotografia° o °fotone°? Si crea una scissione tra lo scritto e il pronunciato che non dissolve la questione, ma crea solo problemi. Questo, ovviamente, non significa che non possiamo abbreviare, semplicemente non bisogna prenderci il vizio, occorrendo, piuttosto, velocizzare, inventando un neologismo corto. La lingua parlata, che, nonostante quel che dicono i miei critici, ha un bisogno estremo di velocizzazione, ha inventato il neologismo /foto/, come, ad esempio, "Ti faccio una foto". Questa non è più un'abbreviazione, ma è una velocizzazione: un passo avanti, certamente, ma non esente da critiche. "Foto", infatti, è un prefisso (es.: fotomontaggio", "fotoceramica", "fotometria", "fotolisi", e si pensi alla stessa "fotografia"), e un principio inviolabile della linguistica è che il prefisso non può mai essere usato come nome, né viceversa, pena la confusione più totale. 1.2: Un esempio evidentissimo si ha col fatto che si è dato alla moneta unica un nome che è un prefisso: "euro", colla conseguenza che non si può fare il plurale (chi dice "euri" viene guardato male dai saccenti, che, invece, dovrebbero prendersela con chi ha violato quel principio), ma, soprattutto, si crea una confusione ingestibile. Che cosa significa, infatti, "eurocrisi": "crisi dell'Europa" o "crisi dell'euro"? Non sono la stessa cosa. Altro esempio: che cosa significa "eurozona": "zona europea" o "zona dell'euro"? Qualcuno dirà: significa "zona dell'euro" (come in effetti significa) perché non avrebbe senso parlare di "zona europea". E, invece, tale locuzione avrebbe senso, perché ci sono alcuni Stati geograficamente europei non facenti parte dell'Unione Europea, che hanno firmato accordi coll'Unione, accettando l'applicazione di alcuni Regolamenti europei, colla conseguenza che è nato quello che viene chiamato "Spazio giuridico europeo", che è, ovviamente, più blando, ma anche più ampio, dell'Unione. E questo che cos'è, se non un eurospazio o un'eurozona? Come si vede la confusione è tanta, e tutta dovuta al creare neologismi con leggerezza. La soluzione era, ed è, semplice. "Euro" da sempre è un prefisso che significa "Europa", e, dunque, deve continuare ad esserlo. La moneta dovrebbe chiamarsi in modo diverso da "euro", ad esempio potrebbe chiamarsi "èurio" (colla "-i-"); il suo prefisso sarebbe "euri" (anche questo colla "-i"). In questo modo non avremo più dubbi che "eurocrisi" significhi "crisi dell'Europa", ed "euricrisi"_ "crisi dell'eurio", cioè della moneta. 1.3: E "la foto"? "La foto" ben può diventare "la fota"; in tal modo non sorgono più confusioni col prefisso e la desinenza della parola concorda coll'articolo, perché entrambi finiscono in "-a", com'è giusto che sia. 2: Un altro esempio che dimostra come siano i parlanti stessi che vogliono velocizzare_ si ha col passaggio da "informazione" a "info": più chiaro di così...! L'importante è, però, capire che, poiché, a rigore, "info" è un prefisso, e, del resto, la parola originaria è femminile, bisognerebbe dire "la infa". 3: La precisione linguistica, aiutandoci a capire le cose velocemente, ci aiuta a non perdere tempo, perché, come dice Seneca nel De brevitate vitae, è inutile lamentarsi del nostro breve tempo se lo sprechiamo in attività inutili. E non è forse inutile - aggiungo io - usare parole lunghe, quando il contesto ci permette di usare parole brevi? In certi casi, siamo addirittura obbligati ad usare parole brevi, come quando traduciamo dall'inglese poesie in endecasillabi, o quando abbiamo poco tempo, o poco spazio, a disposizione per fare degli interventi che non possono essere brevi, pena l'insignificanza del discorso.
Luca Fiocchi Nicolai
10 maggio 2023 - 00:00
Si è scritto che il prestito bello e pronto dall'inglese soccorre laddove la nostra lingua è carente... guardiamo più in profondità; perché una signora a cui i genitori vollero dare il meraviglioso, evocativo, tradizionale nome di Maria Annunziata può decidere, ad un certo momento della sua vita e non prima, di farsi chiamare Mary? per amore della brevitas? perché un signore può chiamare il proprio cane Danny, certo in omaggio ad un noto attore AMERICANO che porta lo stesso nome? perché è più figo di Fido? le persone portano i nomi, ma i nomi portano tradizioni, valori, mode; si dice che gli italiani non amano la propria favella, ma a questi benedetti italiani quali modelli vincenti vengono imposti più che proposti? e da chi? dove s'ode più chiamare un Achille, un Ettore, nomi sino a qualche decennio fa ancora circolanti nelle borgate romane a simboleggiare forza impavida? dobbiamo davvero far notare l'inondazione delle nostre case da parte di tonnellate di telefilm americani coi loro EROI? Prima dei nomi vengono le cose, per cui, almeno per ora, è scongiurato che si possa udir recitare l'incipit di una santa orazione " Santa Mary, Madre di Dio...".

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Nicola Annunziata
08 maggio 2023 - 00:00
Trovo molto interessante l’articolo di Marazzini e come al solito stimolanti i commenti di Corbolante. Da profano, tuttavia, mi sembra che quella in difesa della lingua italiana sia una battaglia persa. Non può essere un caso l’invadenza del burocranglese e il proliferare nei media di termini inglesi autentici o farlocchi: la deduzione che appare evidente è che agli italiani non piaccia l’italiano. Glielo hanno insegnato a scuola, ma lo trovano forse scomodo e farraginoso. Molte argomentazioni portate da chi sottovaluta il problema del dilagare degli anglicismi, come in particolare la supposta, e in buona sostanza insussistente, intraducibilità dei termini inglesi, e il pigro rifiuto a trovare equivalenti italiani sono molto più facilmente comprensibili e interpretabili se si adotta questo punto di vista, vale a dire lo scarso gradimento dei nostri connazionali per la lingua italiana.

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Luca Fiocchi Nicolai
03 maggio 2023 - 00:00
I linguisti, oggi, non hanno alcuna possibilità di arrestare il processo di autoliquidazione, in atto da tempo, della nostra tradizione linguistica e letteraria, vissuta come un'eredita' macignosa da quelle elite smaniose di sprovincializzare, europeizzare, democratizzare, annullare l'alto e il basso, offrire alla delibazione straniera prose italiche piane, narrative, avvincenti, e poi accogliere, essere " inclusivi", uscire dai confini, guardare al mondo, all'auniverso intero, ricevere una pacca sulla spalla, in una parola, rinunciare alla propria dignità e identita'. Perché se all'entrata di una cartoleria di Ostia posso leggere 'Open' non credo che i cartolai inglesi siano così ansiosi di stampare sulle loro porte la scritta 'Aperto'. Perché un inglese la legga.

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Licia Corbolante
29 aprile 2023 - 00:00
Vorrei riportare alcune parole di Luca Serianni in conclusione del convegno “La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi” (Firenze 2015): “Uno dei compiti dei linguisti, a mio avviso, è quello di favorire la riflessione sulla lingua e sul suo significato anche identitario”. La frase mi è tornata in mente in chiusura di questo tema del mese, sorpresa che spunti di discussione così articolati e attuali non abbiano stimolato più linguisti a dare un loro contributo. Anche su altri spazi pubblici mi sarei aspettata interventi che invece non ho visto. Spero di non essere fuori tema con queste considerazioni, ma forse la partecipazione al dibattito pubblico di un numero così ridotto di esperti è un segnale che serve qualche riflessione anche sul ruolo dei linguisti come divulgatori e come formatori. Penso ad esempio al preambolo della p.d.l. 734, che rivela conoscenze sulla lingua male informate. Stupisce che gli estensori del testo non abbiano consultato alcun linguista ma abbiano ritenuto sufficiente ricorrere, a quanto pare, alla voce “itanglese” di Wikipedia, dove si ritrovano le stesse informazioni ascientifiche come ad es. l’aumento del 773% degli anglicismi o il loro conteggio nei dizionari come indicatore dello stato di salute della lingua. Si nota molta superficialità anche nei commi dell’art. 7 che istituisce il Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana, addirittura non è prevista esplicitamente la partecipazione di linguisti per decidere sulla lingua! Non mi pare che queste carenze siano state colte dai media, che invece si sono incentrati quasi esclusivamente sugli aspetti sanzionatori della proposta di legge. Non sono state rilevate le debolezze del testo e non è stato fatto alcun approfondimento linguistico, a parte alcune brevi interviste a linguisti conosciuti, che ho apprezzato molto. Utili e informativi anche alcuni interventi di linguisti sui social e altri canali, ma molto evidente anche il silenzio di tutti gli altri. Eppure sarebbe [stata] un’ottima occasione per fare divulgazione, proattivamente, ed evitare che questi spazi possano invece essere occupati da voci poco autorevoli ma molto motivate, che si servono della lingua per alimentare scontri ideologici o che per visibilità personale spingono narrazioni catastrofiste e complottiste sul futuro dell’italiano. Concludo citando di nuovo Serianni: “La salute della lingua dipende, lo sappiamo bene, non da interventi esterni ma dai singoli parlanti (ossia da ciascuno di noi). Compete però ad alcuni di essi, per la posizione che occupano – ministro, direttore di un giornale cartaceo o televisivo, intellettuale che sia spesso ospitato in trasmissioni di grande successo ecc. – la responsabilità di un uso consapevole della lingua, rispettoso sia della sua storia, sia del diritto di ciascuno a riconoscersi appieno nelle parole che ascolta o legge negli interventi di chi opera in un àmbito pubblico”. Penso anche a Francesco Sabatini che in un’intervista recente ha ribadito che è un’illusione pensare di poter fare leggi contro l’invasione delle parole, e l’unico vero intervento efficace per la salute della lingua italiana è garantire che tutti abbiano la migliore istruzione possibile. Mi auguro quindi che il dibattito aperto dagli interventi legislativi sull’italiano faccia giocare anche altri tipi di partite all’interno dell’università: un ruolo più attivo di divulgazione pubblica per un maggior numero di linguisti e più attenzione alla formazione dei futuri insegnanti, per un insegnamento dell’italiano che faccia acquisire una migliore consapevolezza linguistica – per tutti e quindi anche per i futuri legislatori, politici e comunicatori pubblici.

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Licia Corbolante
29 aprile 2023 - 00:00
Aggiungo un riferimento sul ruolo dei linguisti come comunicatori: “Communicating Linguistics. Language, Community and Public Engagement”, edited by Hazel Price, Dan McIntyre, Routledge, 2023. Il volume è scaricabile gratuitamente da https://www.taylorfrancis.com/books/oa-edit/10.4324/9781003096078/communicating-linguistics-hazel-price-dan-mcintyre

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Marco Valente
21 aprile 2023 - 00:00
Le considerazioni del Presidente Marazzini sono tutte molto condivisibili, specie quella dell'estromissione dell'Italiano da università e scienza. Nutro dubbi su come agire per indurre la burocrazia a usare più italiano nelle comunicazioni ufficiali, dato che oramai per gli Italiani viene quasi più naturale usare termini inglesi che italiani. Potrei appoggiare l'idea del "Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana", tuttavia data la sua composizione più politica che linguistica, mi trattengo dal farlo. Uno degli scopi che avrebbe tale comitato è quello dell'arricchimento del lessico italiano, specie "nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione", il che penso sia positivo, dato che oramai in certi settori l'Italiano risulta essere non pervenuto, e quando si deve parlare di tali temi in Italiano lo si può fare solo mediante la "stampella" dell'Inglese, finendo irrimediabilmente per sfociare nell' "Itanglese". A mio personalissimo avviso, uno dei tanti motivi per cui si preferisce usare termini inglesi è la mancanza di enti forti, come in Francia e Spagna, che propongano alternative/traducenti per essi, e non essendoci alternative si è quasi costretti a ricorrere agli anglicismi, il che rafforza sempre più l'idea che una cosa nuova, soprattutto se pertinente a tecnologia o digitale, possa solo dirsi in inglese. Ecco perché potrei dirmi a favore di un organo con tale funzioni, però esso deve essere istituito in concerto con gli "esperti del settore", di modo che si abbia una situazione linguistica simile a quanto avviene in Francia, paese a cui ,in più interviste, il presentatore di tale legge ha detto di volersi ispirare. Secondo me questo è un tema che non andrebbe sottovalutato, ma discusso maggiormente; e spero lo si faccia. Secondo me ci si potrebbe allineare alle politiche linguistiche degli altri paesi romanzi senza imposizioni, multe o danni a lingue minoritarie.

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Risposta
Marco Valente
25 maggio 2023 - 00:00
ADDENDUM Mi è capitato di seguire un evento a cui ha partecipato il neopresidente D'Achille e nel suo discorso ha più volte sottolineato come l'Italiano non debba abbandonare la propria tradizione scientifica. Benché tale affermazione sia condivisa da tutti, spero che comporti anche una maggiore promozione dell'uso della terminologia italiana nelle scienze, dove spesso l'italiano risulta esserne privo e deve appoggiarsi all'inglese, quasi come se l'Italiano non fosse adeguato a parlare di scienza con termini propri. Siccome in molti casi l'Italiano manca di linguaggi specialistici propri, specie nei settori moderni, dove il "tasso di anglicizzazione" attinge livelli alti, non sarebbe opportuno incentivare o proporre traducenti e alternative che suppliscano all'uso imperativo dell'inglese. E in quest'ottica si potrebbe giustificare la funzione del "Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana", una volta specificati composizioni,fini e modus operandi, cose che dal testo della pdl risultano di difficile comprensione.
LUCA FIOCCHI NICOLAI
21 aprile 2023 - 00:00
La Storia ci conforta. L'Italia fu preda dello Straniero per secoli ma la lingua sopravvisse, sia pure infranciosata. Di qui la reazione dei Rubbi, degli Alfieri. I vari tentativi per imporre una Koine' nazionale. Dal '45 le nostre classi dirigenti hanno optato per l' integrazione Europea, con la conseguenza che la lingua Italiana ha perso, in Italia, centralità. Ci troviano in una situazione simile a quella che riguardo' l'U.R.S.S e le sue Repubbliche nelle quali il Russo fu imposto agli altri popoli. Ci attende un futuro di eclissamento della nostra identità linguistica a livello della massa, sempre sonnacchiosa, ma non di illuminate elite, che potranno reagire all'imbarbarimento dell'Italiano solo quando l'Europa così com'è, ovvero un mastodonte governato da burocrati ostili alle nazioni, come lo era il colosso Sovietico, collassera'. Io spero molto presto.

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Fabio Marri
19 aprile 2023 - 00:00
Trattazione condivisibilissima, ma troppo lunga perché i giornalisti si scomodino a leggerla e meditarla. Penso soprattutto a quei giornalisti che, traendo spunto da un'intervista rilasciata dal presidente Marazzini al QN, ne hanno estratto solo l'aggettivo "ridicolo", falsandone oltretutto il riferimento, che secondo la loro interpretazione si rivolgeva all'intero disegno di legge Rampelli (mentre era semmai rivolto, in modo molto educato, alla sola proposta di multe). Perfetto l'inciso attuale, che (non avendo obblighi diplomatici da rispettare) riferisco appunto a quel genere di giornalisti: "dando spazio ad avversari politici pronti a dar luogo a uno scontro puramente ideologico sull'abuso di inglese visto come di per sé progressista da chi non si riconosce nel governo in carica (si sono già manifestati i primi segnali di questa deviazione patologica)". Mi premurerò di diffonderlo, per quanto consentito dai miei modesti mezzi, sugli stessi "social" che hanno riecheggiato, appunto, tali prese di posizione. Aggiungerei solo che la proposta di nuovo articolo costituzionale del 2002, dopo la formula, citata dal Presidente: "La lingua italiana è la lingua ufficiale della Repubblica", sarebbe dovuta proseguire con: "La Repubblica promuove le culture locali e ne valorizza le espressioni linguistiche". Questo, almeno, secondo il testo licenziato dalla Commissione Studio allestita presso l'Istituto di Glottologia della Cattolica di Milano, presieduto dalla compianta Celestina Milani e firmato, tra gli altri, da Giuseppe Frasso, Francesco Mattesini e da alcuni insigni giuristi. Venne poi la proposta di legge 2689 del 15.9.2009 "Istituzione del consiglio superiore della lingua italiana", prima firmataria Frassinetti, ma che tra i firmatari aveva anche Andrea Orlando; ovviamente naufragata con la fine della legislatura, ma a quanto pare ripresa anche nell'ultima circostanza.

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Un puzzone
14 aprile 2023 - 00:00
Perché la Crusca si oppone alla possibilità che l'Italiano si doti di una politica linguistica allineandosi a quanto già avviene negli altri paesi romanzi ? Perché la Crusca si oppone a un ente che fornisca alternative o traducenti agli anglicismi come avviene in altri paesi ? Parrà strano ma mi sembra che questa volta sia la Crusca a remare contro l'Italiano. La legge del Deputato Rampelli sarà piena di punti da rivedere, specie multe, rapporto tra italiano e inglese nell'università e questo comitato di cui non colgo l'utilità, ma il concetto di base mi pare condivisibile, ovvero tutelare l'italiano. Penso che una politica linguistica italiana richieda leggi scritte, magari non sanzionatorie, ma lasciare il tutto al buon cuore dei burocrati affinché non adoperino anglicismi e burocratismi vari temo sia un'utopia. Oggigiorno purtroppo gli italofoni considerano l'inglese l'unica lingua con cui poter esprimere cose moderne, poiché se tali cose venissero dette in Italiano suonerebbero ridicole e obsolete, poiché è tale la considerazione che gli italofoni hanno della loro lingua. Bisogna che gli Italiani tornino ad avere fiducia nella propria lingua, come disse in una vecchia intervista il presidente Marazzini. Il secondo tema sul quale avrei dubbi è perché la Crusca si oppone a organismo che arricchirebbe il lessico dell'italiano, proponendo alternative o coniando neologismi per sopperire all'uso imperativo degli anglismi ? Si dà già per scontato che l'unica modalità che l'Italiano ha per espandere il proprio lessico sia trarre da lingue straniere, senza nemmeno tentare di esprimerlo in italiano ? Nutro molti dubbi sul Gruppo Incipit per la sua fallacia e discontinuità, in quanto non è così che si dovrebbe valorizzare una lingua, è come tentare di tamponare il crollo di una diga con un cerotto. Tutte le lingue romanze sono dotate di un organismo volto all'arricchimento del lessico e alla creazione di neologismi, anche nella terminologia specialistica; non vedo perché l'Italiano non possa allinearsi a esse. Forse tale reticenza è dovuta alla precedente politica linguistica del ventennio, molto più oppressiva di quelle attuali; eppure non mi sembra una buona motivazione per lasciar decadere l'Italiano sotto l'afflusso di anglismi. Fossi la Crusca organizzerei un'altra delegazione volta a discutere di qualcosa di più che il semplice inserimento in costituzione dell'italiano. La tutela di qualsiasi lingua deve essere scissa dalla politica, si mettano da parte le ideologie, si parli con chi ha proposto la legge, maggioranza, opposizione, governo e si arrivi a qualcosa per valorizzare, promuovere e tutelare questa lingua negletta.

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Luigi Foschini
14 aprile 2023 - 00:00
Splendido intervento! Ho apprezzato moltissimo le sue riflessioni e le condivido. Mi permetto di aggiungere qualche nota relativa alla mia esperienza professionale di ricercatore. La lingua inglese stimola il pragmatismo, è molto sbrigativa, compatta, tende a comprimere le parole in una ossessiva ricerca di acronimi. La lingua italiana consente invece di articolare meglio le teorie scientifiche. Per esempio, nei miei studi sul tempo cronologico ho notato che l'inglese ha solo la parola future, che - come per l'italiano futuro - è derivata dal latino futurus, una forma arcaica del verbo sum. Il problema è che la parola futuro, essendo derivato del verbo essere, indica qualcosa che c'è già e che deve essere solo raggiunto con l'incedere del tempo, con ovvie implicazioni non scientifiche, quali la credenza nel destino o nelle predizioni astrologiche. Invece, nella realtà fisica, ciò che accadrà domani o fra un mese o un anno non esiste proprio e deve essere generato con dispendio di energia. Usare un derivato del verbo essere non va quindi bene, in quanto permeato da un significato ontologico. In italiano c'è la parola avvenire, che si adatta decisamente meglio all'idea scientifica, ma non ha un corrispettivo inglese. Dopo alcune ricerche, l'ho tradotta con forthcoming, pur con tutti i limiti di questa scelta. Nelle discussioni che ho letto su queste leggi, sull'uso dell'inglese sempre e ovunque, si è sempre parlato dell'intraducibilità di parole inglesi in italiano, presupponendo sempre la dominanza dell'inglese. Non si è mai parlato di parole italiane che non hanno un corrispettivo inglese. Non si è mai parlato della ricchezza della lingua italiana, ricchezza indispensabile anche nelle discipline scientifiche. Rammentiamo, come disse il poeta Paul Valery, che la cultura occidentale poggia su tre pilastri: Gerusalemme, Atene e Roma. Non c'è né Londra, né Washington.

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Annamaria Saviolo
14 aprile 2023 - 00:00
La sintesi è nella parola "simboli" e nel 2023, io nata il 23.4.45, speravo proprio se ne sentisse meno la necessità Poi, si sa, ogni governo, pur di spartire i poteri crea nuovi ministeri, difficile capire questo nuova imposizione costituzionale, di tale si tratta, da parte di chi ha creato il "Ministero delle imprese e del made in Italy" , se proprio c'era l'impellenza occupazionale di questo ministero, perché non chiamarlo "Ministero della produzione italiana"? Infine, io vivo in Alto Adige e di questa modifica alla costituzione non ne sentivo proprio il bisogno, servirà solo a gettare legna sul fuoco.

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